PENA DI MORTE: BERTINOTTI, LA MORATORIA E' UN RISULTATO STORICO
(AGI) - Roma, 16 nov. - "Indubbiamente e' giusto mettere l'accento su quello che resta da fare, pero' io credo che bisogna fissare questo momento cosi' importante. Il risultato e' davvero straordinario, troppe volte sciupiamo delle parole importanti, ma questo e' davvero un avvenimento storico". Cosi il presidente della Camera Fausto Bertinotti commenta, ai microfoni di Radio Radicale, il voto favorevole alla risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali espresso ieri dalla commissione diritti umani del'Onu.
"Conquistare una risoluzione sulla moratoria della pena di morte - spiega Bertinotti - vuol dire introdurre in un mondo attraversato dalla violenza, dalla guerra e dal terrorismo, una conquista di civilta' intanto nella cultura e nella volonta' di grandi organizzazioni come l'Onu che puo' lavorare nel fondo delle societa' per almeno far si' che gli stati non dispongano piu' della possibilita' di uccidere, e quindi in qualche modo costituisca un argine alla violenza. E' un risultato molto importante. Comincerei con il riconoscimento di una lunga azione, mossa da Marco Pannella e dai Radicali, che ha agito da fertilizzazione del terreno, e nel momento in cui si consegue un risultato cosi' emozionante e' giusto riconoscerlo. E' giusto riconoscerlo anche perche' e' una lezione per la politica, per come si puo' costruire un contagio positivo".
"Il secondo elemento - aggiunge il presidente della Camera - riguarda le istituzioni e le forze politiche che si sono lasciate contagiare, e che per quello che ci riguarda anche qui alla Camera dei deputati hanno costruito un impegno comune ,anche questo un po' straordinario in un periodo nel quale non ci si mette d'accordo su niente. Su una cosa come questa sin dall'inizio il Parlamento ha svolto una funzione di sollecitazione anche sul governo. Poi credo che vada riconosciuta al governo una capacita' di iniziativa politica intelligente - sottolinea Bertinotti - che ha guadagnato un consenso in Europa senza rinchiudere nell'Europa il protagonismo di una battaglia che e' stata vinta fin qui solo grazie al fatto che non si e' configurata come un'esclusiva europea e che invece ha saputo attivare tutte le forze disponibili nel mondo perche' si conseguisse questo risultato".
"Adesso - conclude - si tratta di portarlo a compimento, ma mi pare davvero che si possa dire che un risultato molto importante e' acquisito". (AGI)
l’Unità 17.11.07
La «Cosa rossa» si prepara alla battaglia del welfare
Mussi: il voto sul protocollo non è scontato. Giordano: indispensabili le modifiche. E si lavora all’unità
di Simone Colini
BENE l’approvazione della Finanziaria, ma ora con Prodi e con gli alleati vanno ridiscusse le priorità di questo governo. L’ala sinistra dell’Unione si prepara alle prossime battaglie, a cominciare da quella sul protocollo sul welfare. Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani si sono dati appuntamento a Napoli, all’indomani del voto del Senato. I vertici della «Cosa rossa» cantano vittoria per il via libera al Senato di una manovra di bilancio che, per dirla con Fabio Mussi, «arriva al traguardo migliore di come era partita» e che, per dirla con Franco Giordano, «nonostante Dini ha portato alla stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego». E questo, dicono sia il coordinatore di Sd che il segretario del Prc, grazie al fatto che le forze di sinistra hanno fatto fronte comune per tutta la battaglia parlamentare, dalla presentazione di emendamenti unitari fino alla dichiarazione di voto con lo speaker unico.
«Abbiamo sperimentato l’effetto benefico del primo passo di unità a sinistra», dice Mussi intervenendo all’iniziativa pubblica organizzata alla Città della scienza di Bagnoli. Ora però si apre una fase decisiva per il centrosinistra, avverte il ministro dell’Università. «Dobbiamo chiedere a Prodi e agli alleati di sedersi attorno a un tavolo per rimettere in ordine le priorità. E poi dobbiamo lavorare sodo per realizzarle. Il governo può anche cadere. Guai se cadesse per responsabilità della sinistra. Il nostro impegno è perché faccia bene e faccia meglio». Mussi cita tra le priorità il lavoro e il problema del precariato, per poi buttare lì una frase che lascia prefigurare scenari di diverso tipo: «Il voto sul protocollo non è scontato».
È questo il prossimo fronte sul quale giocherà le sue carte e verrà messa alla prova la sinistra unitaria. Come si è visto alla manifestazione del 20 ottobre, alla quale aderirono Prc e Pdci ma non Verdi e Sd, le posizioni sulle strategie non sono coincidenti. Non a caso, se Mussi oltre quella sibillina frase non va di fronte alla platea riunita a Napoli, Giordano invece calca la mano proprio sul protocollo, definendo «assolutamente necessarie» le modifiche al decreto nella conversione in disegno di legge. Come però, d’altro canto, non è un caso se il segretario del Prc sta attento a non creare lacerazioni all’interno del soggetto «unitario e plurale» che dovrà nascere: sa che Mussi e i suoi alla manifestazione di un mese fa non hanno partecipato proprio perché preoccupati di una piazza che potesse dar voce a posizioni antisindacato, e di fronte al ministro dell’Università e alla platea dice che alle modifiche ci si può arrivare «con il consenso del movimento sindacale»: «Nessuna contrapposizione», assicura anche a beneficio di Alfonso Pecoraro Scanio (per il Pdci c’è il capogruppo alla Camera Pino Sgobio).
L’asse tra Giordano e Mussi, i due più propensi a vedere nella nascente federazione un semplice passo intermedio verso un soggetto sì plurale ma veramente unitario, non dovrebbe insomma essere incrinato dalla battaglia sul protocollo. Anche perché se Giordano vuole «impedire che l’agenda politica sia dettata dal Pd», Mussi fa notare che, «non può continuare ad esistere un arcipelago a fare da corona al Pd» e che «solo una sinistra unita, a due cifre, può incidere». Sull’abolizione del «job on call» e sul fatto che i contratti a termine non possano superare i 36 mesi l’intesa c’è, e verrà presentata agli alleati in un vertice che si preannuncia tutt’altro che semplice. Se Dini fa sapere che se il protocollo viene «annacquato» è pronto anche a far cadere il governo, Mussi spera che l’ex premier rifletta: «Buttare tutto all’aria senza sapere dove si va non sarebbe un atto di ragionevolezza politica».
l’Unità 17.11.07
Berlinguer? Un solitario in mare
Il nuovo libro di Pietro Ingrao
Le passioni, le battaglie e le scelte degli ultimi anni
Il piacere e la pratica del dubbio, l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e l’Afghanistan, il carcere e la pena di morte, la militarizzazione della politica internazionale, gli Usa e il comunismo raccontati da Pietro Ingrao in un intenso dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di prossima uscita per i tipi della casa editrice Manni (pagine 88, euro 10,00), del quale pubblichiamo in anteprima, in questa pagina, un brano nel quale Ingrao racconta del suo rapporto con Enrico Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran parte della quale lui stesso ha raccontato nel bellissimo Volevo la luna, Einaudi) coincide con i destini del comunismo e attraversa i grandi avvenimenti del Novecento: dalle due guerre mondiali, al Nazismo, allo Stalinismo, al crollo del muro di Berlino, fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le passioni, le battaglie e le scelte di intere generazioni che, con i loro sogni hanno dovuto fare i conti con la storia, e la sua figura incarna le ragioni e le speranze che hanno tenuto insieme un popolo più che un partito. Il dialogo nel libro è la storia di un percorso di vita vissuto da protagonista, un libro «scomodo» in cui non si risparmiano critiche severe, analisi lucide e appassionate del secolo rifuggendo sia dalla retorica politica, sia da giudizi sommari.
UN LUNGO DIALOGO tra il leader politico e Claudio Carnieri «riempie il vuoto» lasciato dall’autobiografia Volevo la luna: comincia infatti là dove il racconto
termina, dagli anni Ottanta a oggi ed è raccolto nel libro La pratica del dubbio
Ricordandolo provo orgoglio per il suo legame alla causa di liberazione dell’umano, e simpatia per il suo essere stato vagabondo e silente
Aveva una capacità straordinaria di comunicare. Forse perché non era mai finto
Il suo limite, non abbandonarsi alla fantasia
Il piacere e la pratica del dubbio,
l’Occidente e l’Oriente, il Vietnam e
l’Afghanistan, il carcere e la pena di
morte, la militarizzazione della politica
internazionale, gli Usa e il comunismo
raccontati da Pietro Ingrao in un intenso
dialogo con Claudio Carnieri. Questo, in
sintesi, è La pratica del dubbio. Dialogo
con Claudio Carnieri di Pietro Ingrao, di
prossima uscita per i tipi della casa
editrice Manni (pagine 88, euro 10,00),
del quale pubblichiamo in anteprima, in
questa pagina, un brano nel quale Ingrao
racconta del suo rapporto con Enrico
Berlinguer.
La vita politica di Pietro Ingrao (gran
parte della quale lui stesso ha
raccontato nel bellissimo Volevo la luna,
Einaudi) coincide con i destini del
comunismo e attraversa i grandi
avvenimenti del Novecento: dalle due
guerre mondiali, al Nazismo, allo
Stalinismo, al crollo del muro di Berlino,
fino ad oggi. Sulla sua pelle bruciano le
passioni, le battaglie e le scelte di intere
generazioni che, con i loro sogni hanno
dovuto fare i conti con la storia, e la sua
figura incarna le ragioni e le speranze
che hanno tenuto insieme un popolo più
che un partito. Il dialogo nel libro è la
storia di un percorso di vita vissuto da
protagonista, un libro «scomodo» in cui
non si risparmiano critiche severe, analisi
lucide e appassionate del secolo
rifuggendo sia dalla retorica politica, sia
da giudizi sommari.
L’autobiografia di Pietro Ingrao, Volevo la luna, si fermaa
una fase cruciale della sua vita, lamorte di Moro
e il rifiuto di fare il presidente della della Camera
per la seconda volta.Da qui, dalla fine degli anni 70,
parte la conversazione tra ClaudioCarnieri e il leader
politico raccolta nel libro La pratica del dubbio, della
quale proponiamo qui di seguito uno stralcio.
E tu che pensavi? Quali erano a tuo avviso i
limiti della linea berlingueriana?
«Lo direi con una parola: l’Europa. Le carenze del
Pci su questo nodo erano antiche. Persino con i
compagni francesi la nostra intesa era spesso turbata
da quella loro ostinata gelosia, emersa già -
loavevovissuto di persona - in alcuni degli incontri
fra i partiti comunisti avvenuti a Mosca. Con
quei compagnifrancesi da anni ci giuravamo fratellanza;
poi scattava la loro gelosia irrefrenabile.
Già a metà degli anni ’70 Berlinguer aveva cercato
di allargare lo schieramento comunista inOccidente,
dando vita a una alleanza tripolare con i
«rossi» di Francia e di Spagna, e i loro leader (Carrillo,
Marchais): sotto la formula dell’euro comunismo.
L’intesa a tre fracomunisti italiani, francesi
e spagnoli, s’era compiuta soprattutto per l’impulso,
e l’autoritàdiEnrico,moltoappoggiato innanzituttodai
compagnispagnoli,daCarrillo prima
di ogni altro. La durata di quella stagione fu
breve, fino al 1977, quando si aprirono contrasti
soprattutto con i francesi e con Marchais.Il tema
più importante che avevamo dinanzi era però
l’intesa con i socialdemocratici e con le correnti
cattoliche avanzate, che erano di nuovo fortemente
presenti sulla scena d’Europa. Berlinguer
stesso cominciò a lavorare in quella direzione,
manon senza qualche esitazione che venne meno
solo nei primi anni ’80. Poi venne la tragedia
che ci sconvolse e commosse tutti. Berlinguer lavorava
freneticamente in quegli anni: nel suo
sforzo di collegamento con i comunisti d’Europa,
e con le correnti innovatrici del Paese, dove
non s’era affatto consumato il veleno del terrorismoe
poiperseguendoquelle suenuoveattenzioni
verso la sinistra europea e il Terzo mondo.
Quel leader stava in piazza. Entrava nella lotta
quotidiana. Girava l’Europa. Quando fulminea
precipitò la sventura. Stava tenendo un comizio
a Padova.Mentreparlavadaunatribunetta di fortuna,
nel vivo diunafrase, fu coltodaunictus fulminante.
Crollò di schianto a terra. Tra lagrime e
sgomento fu trasportato di corsa in ospedale. E
là, a Padova, visse giorni disperatidi lotta tra la vita
e la morte: senza mai riuscire a pronunciare
una sola parola.Mi precipitai in quell’ospedale, e
vissi quella sua agonia ora per ora. Venne anche
Pertini, e si fermò giorni accanto a quel malato
muto,chesembrava fermo a scrutareunorizzonte
lontano e indicibile. Poi venne la fine. E i pianti
dirotti deicompagniprostrati sulla salma, le invocazioni
senza speranza, con un dolore che era
pari all’amore per lui che era grande. Infine quella
salma coperta da manti e da fiori cominciò il
suo dolente viaggio per la penisola: con soste in
decine di stazioni, gremite da un popolo in lacrime:
e infinenelle strade di quella capitale dove lo
accompagnò fino a piazza San Giovanni un fiumedi
folla mai visto, impietrito in un incredibile
silenzio.Vennero a salutare quella salma persino
avversaridisempre:GuidoCarli, conservatoredichiarato…»
E oggi, da così lontano, come ti appare quel
leader? Come lo leggi? Che senti?
«Prima di tutto provo un senso di orgoglio umano.
Orgoglio per quel suo legame ad una causa:
quella causa storica di liberazione dell’umano. E
poi simpatia per le sue passioni singolari: come
vagava solitario nel mare, quasi a interrogare
l’orizzonte. Vagabondo e silente. Vederlo crollaredaquelpodiodoveparlava
del futurodel continente,
mi parve una violenza crudele».
Tu però non sei mai stato «berlingueriano».
Non avesti mai un rapporto confidenziale
con lui. Perché?
«È difficile dire. La memoria di quella persona è
troppo vicina. L’immagine stampata nella mia
mente è quella di lui in una barca, che avanza
scrutando l’orizzonte. Un solitario in mare… E
come mischiate nella sua vita, nel profondo del
suo sentire, una sete di solitudine e al tempostesso
una capacità di comunicazione straordinaria
con la gente. Forse perché non era mai finto.
Con un limite forse: pesava ossessivamente tutto.
Non si abbandonava mai (almeno così mi
sembrava) alla fantasia. Fra noi due ci furono stimagrande
e rispetto reciproci. Confidenzano. In
fondo, i nostri vocabolari erano diversi».
Torniamo agli inizi degli anni ’80, quando vai
a lavorare al Crs. Che facevi? Che cercavate?
Prima di tutto dove eravate allocati?
«Ricordi quella strada circolare che a Roma dalla
fine di via Nazionale porta a Piazza Venezia? In
una rientranza c’era un breve spiazzo, dov’era sita
una fontanella, a cui spesso ci abbeveravamo.
La sede del nuovo Crs stava proprio di fronte a
quella fontanella e al palazzo in cui fino al ’56 era
stata la sede dell’Unità: là - in quel gomito di strada
- io avevo lavorato furiosamente per circa dieci
anni: prima come capo cronista e poi come direttore
dell’Unità. In quello stesso edifizio c’era
unpiccolo eprelibatonegozioche amavamotanto:
la libreria Tombolini. La rividiquandoda BottegheOscurepassai
a lavorarealCrs. Era gradevolissimo
scendere dalle nostre stanze e - dopo aver
preso l’agognato caffè - andare a frugare fra i banchi
di quel libraio intelligente, sperando sempre
di metteremanosu qualchenuovapista interpretativa
di quell’ardente Novecento».
Era insomma il ritorno ad una
frequentazione più antica. Ecco. In quei
viaggi fra gli scaffali, nei tuoi anni giovanili,
che ti incuriosiva? Che cercavi?
«Prima di tutto cercavo testi che riguardavano le
mie passioni di sempre: cinema, poesia. Ma anche
classici della politica, o testi eretici per i quali
il fascismo stranamente aveva lasciato qualche
pertugio, se mai da case editrici impensate come
Corbaccio, per esempio. Quanto alla letteratura
cercavo non tanto autori italiani che da tempo
stavanonegli scaffali di casamia (Ungaretti,Montale,
Quasimodoe tutto il gruppo di quella rivista
di poesia Circoli impiantata in Liguria e diretta da
AdrianoGrande).Ora mi avvincevano autori del
Novecentoeuropeo odella letteraturaamericana
roosveltiana: Faulkner soprattutto e Steinbech, i
suoi testi più giovani: Uomini e topi per esempio,
quel libro singolare e ambiguo. In cima a tutti
c’erano però perme i grandi autori che avevano
mutato, insieme con il vocabolario e il catalogo
delle parole, la lettura dell’umano: Joyce innanzi
a tutti, e Kafka che ci parlava da quella città indimenticabile
che era Praga. Impallidiva il piacere
del fraseggio letterario a cuimi aveva trascinato il
cenacolo fiorentino. Agivaunanuovalingua che
si interrogava sul senso della vicenda dell’uomo».
l’Unità 17.11.07
Spagna, boom di divorzi lampo. La Chiesa contro Zapatero
A due anni dalla nuova legge aumentati del 74%. Separazioni
in calo. La Conferenza episcopale: così si distrugge la famiglia
di Franco Mimmi
AUMENTO del 74,3 per cento di divorzi, l’anno scorso in Spagna, dopo la legge del cosiddetto «divorzio express» varata nel 2005 dal governo socialista. Per questi dati statistici la chiesa spagnola ha subito alzato le grida al cielo: «Il governo – ha dichiarato padre Leopoldo Vives, della Conferenza episcopale – si è proposto di distruggere le basi della società spagnola per impiantare un nuovo modello a misura dei suoi interessi, per questo bisogna distruggere la famiglia e in questo si sta impegnando». Ma in realtà il divorzio express sembra avere soprattutto un risvolto positivo: infatti i coniugi che hanno deciso di rompere la loro unione lo fanno sempre più in modo consensuale. E un’analisi meno superficiale mostra che l’aumento è quasi inesistente, perché la nuova legge rende facile divorziare quanto lo era prima separarsi e infatti le separazioni sono diminuite del 70%. Altri dati statistici: in media, la rottura del vincolo avviene dopo circa 15 anni, e i coniugi - il 55% dei quali con figli - hanno tra 40 e 50 anni. Il divorzio è stato introdotto in Spagna nel 1981, pochi anni dopo il ritorno alla democrazia, e da allora il numero di casi mostra una curva ascendente. Fino a due anni or sono, però, esso richiedeva che prima vi fosse stata una separazione legale, che per questa fosse stata addotta una causa (come «l’infedeltà coniugale, la condotta ingiuriosa o vessatoria o qualsiasi altra violazione grave o reiterata dei doveri coniugali»), e che dal matrimonio fosse trascorso più di un anno. Insomma: le solite clausole dissuasive per cercar di evitare la rottura definitiva del vincolo. Ma tutto ciò serviva solo a perpetuare situazioni generatrici di grandi sofferenze e ad aumentare il costo del divorzio, sicché la legge del 2005 ha eliminato tutte quelle barriere: il divorzio può essere chiesto senza separazione previa e senza identificazione della causa, con una richiesta unilaterale e dopo soli tre mesi dal matrimonio (il che ha portato alla nascita del matrimonio express, tanto che nel 2006 c’é stato un migliaio di unioni (330%) che è durato meno di un anno). Come conseguenza, oggi il 70 per cento delle pratiche di divorzio arriva alla meta in meno di sei mesi, e vi sono compagnie che in internet offrono assistenza per tutta la procedura per meno di 500 euro Iva inclusa.
La legge fu introdotta assieme a quella che consentiva il matrimonio di coppie omosessuali, e sollevò la fiera opposizione sia della Conferenza episcopale sia della destra rappresentata dal Partido popular (quest’ultimo, timoroso di perdere i voti degli omosessuali, in una vertigine di ipocrisia sosteneva di non essere contrario a simili unioni ma solo a che si chiamassero matrimonio). I vertici della chiesa spagnola accusarono il governo socialista di Zapatero di praticare «misure antifamiliari», e invitarono i cattolici a usare tutti i mezzi legittimi «in difesa del matrimonio, della famiglia e dei bambini». Si poté così assistere allo spettacolo di vescovi manifestando nella pubblica via insieme con i vertici del Pp sebbene si fossero ben guardati dal fare altrettanto nei quarant’anni della dittatura franchista, non per nulla definita «nazional-cattolicesimo». Per i vescovi, il cosiddetto divorzio express introduceva «la figura del ripudio nella nostra legislazione», e il matrimonio gay voleva «annullare il significato antropologico della differenza sessuale e imporre la «teoria del genere», contraria alle vera natura dell’uomo».
Il Vaticano stesso entrò nella polemica, e non ha perso occasione per rinnovare lo scontro con il governo Zapatero. La protesta ecclesiastica, ormai trasformata in pretesto per fare campagna politica contro il governo socialista, è andata dalle leggi di cui si è detto all’insegnamento della religione nelle scuole, che i vescovi vorrebbero obbligatorio, fino alla recentissima beatificazione di 498 sacerdoti «martiri» della guerra civile spagnola uccisi dai repubblicani. Dimenticando beatamente i molti sacerdoti e monache uccisi dalle truppe franchiste con l’aiuto dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani.
Repubblica 17.11.07
1968. Quel giorno in cui tutto cominciò
di Guido Crainz
La protesta studentesca dilagò poi in tutto il paese, mentre molti elementi facevano sì che i conflitti fossero sempre più radicali
Il 17 novembre di quarant´anni fa veniva occupata la Cattolica a Milano. Poi sarebbe stata la volta di Palazzo Campana a Torino
Iniziava quarant´anni fa l´anno accademico 1967-68 e il movimento studentesco si annunciava già a novembre, occupando il 17 l´Università Cattolica di Milano, e il 27 Palazzo Campana a Torino. Era il primo sbocco di una incubazione precedente e ad essa occorre guardare per comprendere il largo coinvolgimento di una generazione. Nella radicalizzazione successiva esso sembra dilatarsi al massimo ma si avvia poi al declino lasciando il campo a esperienze più ristrette, condizionate in modo crescente dai gruppi extraparlamentari sviluppatisi sull´onda e sulle ceneri di quel movimento.
Nella scuola era cresciuta più che altrove la tensione fra le trasformazioni della società italiana e istituzioni rimaste chiuse e arcaiche. Fra il 1962 e il 1968 gli studenti universitari erano raddoppiati, mentre gli istituti superiori erano frequentati allora dal 40 per cento dei giovani di quell´età: erano il 10 nel 1951, poco più del 20 nel 1961. La scuola, invece, era rimasta uguale a se stessa. «Lo studente è un sacco vuoto da riempire, dall´alto di una cattedra, di nozioni già confezionate»: non lo dice un volantino del ´68 ma Gioventù, periodico dei giovani di Azione Cattolica, all´inizio del 1966. Quel 1966 in cui è processato il giornale degli studenti del Liceo Parini, La Zanzara, per una inchiesta su "cosa pensano le ragazze d´oggi". Si diffondono in modo informale nuovi fermenti culturali, e Michele Serra ha evocato bene quel clima ricordando Fabrizio De Andrè: «Era il compagno di banco a imprestarti i suoi dischi, lo stesso che ti aveva fatto leggere Masters o Majakovskij». Nel 1967 i Nomadi portano al successo Dio è morto di Guccini, una denuncia dei miti di una "stanca società" e una speranza: «nel mondo che faremo dio è risorto».
È un annuncio di ´68, in qualche modo, come quelli che avvertiamo nelle critiche crescenti al permanere della miseria nell´Italia del "miracolo" o alle contraddizioni della modernità. Non a caso i due libri centrali del ´68 italiano sono la Lettera a una professoressa di don Milani, una denuncia delle molte forme di emarginazione dei poveri, e l´Uomo a una dimensione di Marcuse, che ha un avvio fulminante: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata». Entrambi escono da noi nel 1967, e nel settembre di quell´anno Giorgio Bocca parlava così di una figlia di amici: «Mi sforzo di capire i caratteri distintivi della sua generazione. Ebbene direi, per cominciare, un rinnovato, prepotente bisogno di ideologia. Il nostro agnosticismo diretto all´utile e al comodo, il nostro tirare a campare non li soddisfa. A Roberta piace il Fidel che dice "voglio dare alla gioventù il disgusto per il denaro", e le piace Guevara che combatte in Bolivia, si interessa ai neri in rivolta, ai vietnamiti in guerra e a ciò che si muove nell´India e nel sud Africa. Ed è questo l´altro carattere che distingue lei e quelli della sua età: l´interesse ai problemi del mondo e ai poveri del mondo». Nello stesso anno Umberto Eco descriveva nuove forme di impegno dei giovani: eppure, osservava, sono cresciuti a televisione e fumetti, «immersi in un bagno di comunicazione indistinta che – a detta degli esperti - doveva renderli insensibili ai valori».
Gli articoli comparivano rispettivamente su Il Giorno e su L´Espresso, e questi stessi giornali fanno cogliere bene quel che si sta muovendo nelle Università. «Sono stanchi di copiare il Partenone», scriveva nel 1965 Camilla Cederna soffermandosi sulle Facoltà di Architettura, ove si avvertiva precocemente il contrasto fra una realtà in tumultuosa trasformazione e insegnamenti inadeguati. Un evento a sé apparve nel 1966 l´occupazione dell´Ateneo romano, mossa dall´indignazione per l´assassinio del giovane Paolo Rossi da parte di gruppi neofascisti, ma all´inizio del 1967 le agitazioni si diffondevano in molte altre città. «Non vogliono diplomi, vogliono una scuola», scriveva Il Giorno, e riferiva poi le ragioni degli studenti pisani di Fisica: «"Noi non vogliamo diventare degli scienziati che inventano l´atomica e poi si pentono". La frase è drammatica ma assolutamente concreta. Sottoposti all´autorità del professore di ruolo gli studenti si applicano a una certa ricerca scientifica, ma non sanno a cosa serve. E vogliono saperlo». A Trento l´occupazione ha al centro il piano di studi della nuova Facoltà di Sociologia, e la discussione si allarga al ruolo del sociologo: "re-filosofo", "consigliere del re" o ricercatore indipendente e critico? Spigolando fra i volantini del 1966/67: «Cittadini, lottiamo perché l´Università vi dia medici migliori»; «Imparare e insegnare argomenti vivi e attuali»; «Partecipazione degli studenti alla ricerca».
Si delinea una inedita politicizzazione che si orienta a sinistra soprattutto perché la destra si identifica con la chiusura culturale, e che rifiuta le organizzazioni universitarie esistenti. Vi contrappone l´assemblea, il rifiuto della delega e un´ansia di partecipazione destinata a diffondersi. In questo processo si delineano però anche nuove, potenziali élites politiche: spesso con una formazione precedente, variamente segnata dal marxismo o dai fermenti che attraversano il mondo cattolico post-conciliare.
All´aprirsi dell´anno accademico 1967/68 ci sono tutte le premesse per l´esplodere del movimento, e sin le sue parole d´ordine: «Contro l´autoritarismo accademico potere agli studenti», proclama il manifesto dell´occupazione di Palazzo Campana a Torino. I germi di involuzioni successive rimangono per ora in ombra ed emergono invece comunità studentesche che ridisegnano modelli e relazioni interpersonali, con modalità che appariranno anche altrove: una generazione «caratterizzata da una sorprendente volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di cambiamento», per dirla con Hannah Arendt. Nel dilagare del movimento si dissolvono le organizzazioni precedenti, si svuotano le federazioni giovanili dei partiti, si delineano linguaggi inediti.
Molti elementi contribuiscono alla radicalizzazione. In primo luogo l´incapacità dei docenti di rispondere alle domande degli studenti, il susseguirsi di irrigidimenti autoritari, balbettii e arbitrii che provocano la dissacrante e allegra ironia del movimento. «In pochi mesi – annotava ancora Bocca - si è scoperto in modo clamoroso che la didattica di quasi tutte le facoltà umanistiche e di molte facoltà scientifiche è inadeguata». Si aggiungano i limiti della riforma universitaria allora in discussione, che oltretutto veniva affossata non tanto dalle proteste studentesche quanto dalla resistenza conservatrice dei "baroni", ben rappresentati in Parlamento. Si opponevano ad alcuni degli aspetti innovativi della "legge Gui": l´introduzione del tempo pieno e il divieto «a fare altri dieci mestieri oltre a quello per cui sono regolarmente pagati», come annotava L´Espresso.
A far precipitare la situazione contribuiva l´irrigidimento repressivo predisposto da una circolare del ministro degli Interni Taviani, che disponeva: «Non appena si ha notizia di una occupazione – o della decisione in tal senso - da parte di organismi o gruppi di studenti, il Prefetto deve subito prendere l´iniziativa di mettersi in contatto con il Magnifico Rettore e comunicargli che la Polizia procederà all´impedimento dell´occupazione o allo sgombero, qualora essa sia già avvenuta». Con questa circolare l´unica forma efficace di agitazione negli Atenei veniva messa di fatto fuori legge: e, in reazione, la mobilitazione studentesca si estendeva e inaspriva. Più elementi contribuivano dunque alla radicalizzazione ed essa toglieva progressivamente spazio alle aspirazioni a migliorare l´Università, vista sempre più come mero luogo di organizzazione del consenso. L´Italia d´allora offriva poi molti argomenti ai gruppi più politicizzati, che vedevano nella scuola solo lo specchio di più generali autoritarismi e ingiustizie sociali e su questi aspetti spostavano l´attenzione: con estremizzazioni ideologiche e semplificazioni ma contribuendo anche a innovazioni feconde, e più in generale a nuove sensibilità e a una più ampia concezione dei diritti. Su questi versanti l´Italia sarebbe cambiata in meglio.
L´inasprirsi dei conflitti, con il susseguirsi degli interventi di polizia e i primi scontri di piazza, si inseriva nel tumultuoso diffondersi del movimento in molti altri paesi, in un panorama internazionale segnato - per fare qualche esempio - dall´attentato al leader studentesco tedesco Rudi Dutschke, dagli assassinii di Martin Luther King e Bob Kennedy, dal maggio francese, dall´invasione di Praga, dai massacri di studenti in Messico. «Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni, è l´ora della violenza», scriveva Pier Paolo Pasolini dopo la condanna a morte del giovane Panagulis nella Grecia dei colonnelli. Cresceva al tempo stesso la denuncia della violenza quotidiana, esplicita o occulta, della società occidentale, e il tema era al centro del convegno su La violenza dei cristiani che faceva affluire centinaia di giovani alla Cittadella di Assisi. La discussione era alimentata sin da un passo della Populorum progressio (1967) che condannava fermamente l´insurrezione rivoluzionaria «salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata, che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona»: e così indubbiamente era in larga parte dell´America Latina. In quel clima sembravano trovare qualche parvenza di legittimità riflessioni sulla violenza malamente desunte dalla tradizione marxista e leninista o da testi maturati in tutt´altri scenari: da I dannati della terra di Franz Fanon agli scritti di Guevara, e ad altro ancora. Parole, o poco più, ma di lì a non molto, nel rifluire del movimento, avrebbero trovato continuazione in gruppi molto più ristretti e sempre più rinserrati nell´ideologia, in un quadro drasticamente mutato: segnato da forti tensioni sociali, e reso torbido dall´intensificarsi dello squadrismo neofascista e da una stagione di stragi e trame eversive annunciata da Piazza Fontana. Quelle parole avrebbero assunto allora un altro significato, e portato ad altro. Avrebbero contribuito anch´esse a condurre in un cupo tunnel.
Corriere della Sera 17.11.07
Paziente killer, psichiatra colpevole
di Francesco Battistini
Condannato il medico: sbagliò cure. Lui: un attacco alla legge Basaglia
Imola La categoria protesta. Ma i familiari della vittima: «Ci fu negligenza nel suo comportamento»
Quattro mesi di carcere per omicidio colposo, mentre il suo cliente è stato ritenuto non imputabile
MILANO — Condannate me? No, signori della corte: senza volerlo, voi condannate la legge 180, la riforma Basaglia, un'intera stagione della psichiatria italiana. «Di più: si sta condannando la libertà del medico di curare un paziente come meglio ritiene». Quattro mesi di carcere che cancellano quarant'anni di certezze. Una pena per omicidio colposo che gli sembra un ergastolo a quel che ha studiato, creduto, vissuto. Euro Pozzi è uno psichiatra noto, ambulatorio a Bologna. Giovedì, la Cassazione l'ha definitivamente giudicato un killer. Anche se lui, con le sue mani, non ha mai ammazzato nessuno. Il 24 maggio 2000, a Imola, fu un suo paziente schizofrenico grave (Giovanni Musiani, morto qualche anno fa) a uccidere con due coltellate Ateo Cardelli, un assistente della comunità Albatros per ex degenti psichiatrici. Tre lunghi processi, tre sentenze uguali. Per stabilire — caso unico in Italia — che quando l'assassino è un pazzo non imputabile, in galera al suo posto ci va lo psichiatra che l'ha curato male. Cioé Pozzi: «Il mio giornalaio stamattina m'ha chiesto: è possibile che lei debba rispondere d'un reato doloso commesso da terzi? Già. Dopo questa sentenza, per tutti gli psichiatri sarà meglio non esporsi più a inutili rischi. Meglio tornare alla "psichiatria difensiva", a quando il malato di mente era solo un individuo pericoloso. A quando non c'era la legge 180. Meglio riempirlo di farmaci e lavarsi la coscienza».
Processo chiuso, dibattito aperto. Secondo i giudici, la colpa di Pozzi fu d'avere pasticciato col trattamento farmacologico, prima diminuendo il Moditen, poi sopprimendolo, quindi risomministrandolo. Un'altalena di dosaggi «non improntata a criteri di prudenza, diligenza e perizia». Pericolosa in un soggetto come Musiani. «Non è una sentenza contro la Basaglia — contesta Massimo Iasonni, avvocato della famiglia di Cardelli —. È contro chi, la Basaglia, l'applica male. Dimostra lo stato drammatico in cui oggi sono abbandonati questi malati. Musiani era già stato quattro anni in due manicomi criminali, altri medici l'avevano giudicato pericolosissimo. Eppure Pozzi lo visitava di rado, ogni quattro mesi, senza verificare puntualmente gli effetti dei diversi dosaggi. All'Albatros, tutti dicevano che andava disposto il trattamento obbligatorio. Il povero Cardelli scrisse perfino a Piero Marrazzo, Mi manda Raitre, per denunciare i rischi che gli assistenti come lui correvano lì dentro. Tutto inutile. Fu un omicidio annunciato».
Cose da pazzi, va da sè. Ma la domanda resta: fin dove arriva il giudice a valutare una cura? Ordine dei medici e Società di psichiatria protestano. «Il rischio è togliere al malato ogni speranza di riabilitazione — dice Pozzi —. Farmaci, ricoveri prolungati. E addio percorsi riabilitativi, che passano anche per una maggiore responsabilità e autonomia del paziente. Addio articolo 32 della Costituzione, che sancisce diritto alla salute e volontarietà delle cure. Per lo psichiatra, è preferibile non esporsi più». Ma non sarebbe ora di rivedere anche la 180? «Per me, è e resta una conquista di civiltà. Dopo trent'anni, forse serviva qualche ritocco. Ma questa sentenza è definitiva anche per un altro aspetto: chiude una stagione della psichiatria italiana. Una volta per tutte ».
Corriere della Sera 17.11.07
L'intervista «Basta con lo scontro sulla 180»
Andreoli: sentenza giusta la pericolosità va fermata
di Giusi Fasano
MILANO — Quattro mesi per omicidio colposo allo psichiatra che non curò in modo adeguato un suo paziente schizofrenico diventato poi omicida proprio perché, dicono i giudici, il medico non usò con lui «criteri di prudenza e diligenza».
Professor Vittorino Andreoli, questa sentenza apre la strada alla responsabilità degli psichiatri, chiamata in causa raramente.
«È una sentenza anomala perché in materia psichiatrica ci sono sempre una serie di possibilità giustificative. La rarità di questi addebiti è perché la nostra è una scienza infelice, vaga. È difficile trovare criteri che si possono dimostrare. Con questo non è che noi psichiatri siamo privi di responsabilità, anche gravi».
Può uno psichiatra essere responsabile di un'azione di un suo paziente?
«La psichiatria può mancare ai propri compiti istituzionali e quindi anche curativi. In quel caso deve pagare».
Quindi i giudici hanno fissato un principio condivisibile?
«Io cerco di capire, non di condannare. Direi che in questo caso riemerge il concetto della pericolosità, abbandonato con la legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi. Prima il folle era uno pericoloso, poi con la 180 di Basaglia si ritenne che di fatto non era più pericoloso. Ora questa sentenza dice che la pericolosità va prevista».
Hanno ragione i giudici? Si può prevede?
«Esistono delle patologie, in particolare quella delirante, e fra queste la schizofrenia paranoidea, in cui la pericolosità fa parte del quadro. Bisogna che lo psichiatra prenda consapevolezza che fra i sintomi di alcune patologie esiste la pericolosità e che va curata».
C'è il rischio che questa sentenza spaventi gli psichiatri e diventi un incentivo per l'uso dei farmaci?
«Nei casi gravi non è che si possa decidere se usare o no i farmaci. Il vero problema è usarli bene o male. Un paziente in stato delirante bisogna per forza controllarlo con i farmaci. È un errore toglierli, perché torna la forma di delirio. In quanto agli psichiatri, il 15 % dei medici ha una qualche grana giudiziaria nella sua vita professionale e la psichiatria è all'ultimo posto della lista. Quindi non credo che ci sia da preoccuparsi».
Lo psichiatra condannato dice che la decisione dei giudici è contro lo spirito della legge 180.
«Sono passati 30 anni. Finiamola di parlare sempre in termini di pro o contro la 180. Cogliamo una buona volta l'occasione per parlare di psichiatria scientifica o non scientifica».
Corriere della Sera 17.11.07
Un errore l'intervento dei giudici
di Dino Messina
Il caso Saranno in molti ad applaudire alla sentenza con cui la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per omicidio colposo contro il dottor Euro Pozzi.
Finalmente, si dirà, è stata raggiunta una certezza: sappiamo chi è il responsabile ultimo della morte di Ateo Cardelli, l'operatore sociale ucciso a Imola da un paziente schizofrenico. Lo psichiatra ha commesso un grave errore tecnico, diminuendo la dose di psicofarmaci al paziente che credeva parzialmente recuperabile e che invece era un killer potenziale. Naturale che paghi. Noi non siamo d'accordo con questa impostazione. Lo diciamo con tutto il rispetto per la vittima e per il dolore dei suoi famigliari, dalla madre al figlio che si è ritrovato orfano a dieci anni, e anche con la massima considerazione per il lavoro rigoroso svolto dai giudici.
Non vogliamo negare infatti l'evidenza, come spesso avviene in Italia, per un pregiudizio ideologico.
Sì, l'errore c'è stato, ma siamo sicuri che il problema della malattia mentale si risolva passando dal «modello Basaglia», culminato nella legge 180, che alla fine degli anni Settanta aprì i cancelli dei manicomi, al «modello Imola» che prefigura in ultima analisi le manette per il medico? Alzi la mano lo psichiatra che anche con pazienti seguiti a lungo, come sembra in questo caso, non abbia mai sbagliato diagnosi. Non abbia forzato l'equilibrio su quel filo del rasoio in cui si svolge il rapporto psichiatra-malato mentale. Certi errori si commettono non per negligenza ma per eccesso di ottimismo. Di solito si diminuisce la dose di psicofarmaci a un paziente anche grave per dare dignità a una vita che non è tale se non ha un briciolo di autonomia e libertà. Il rischio che si corre è di sottovalutare la pericolosità del paziente verso se stesso e verso gli altri. Come si vede, è un problema clinico ed etico di grande complessità.
Non crediamo che la via giudiziaria partita dall'Emilia Romagna, regione d'eccellenza anche nel campo dell'assistenza psichiatrica, sia quella giusta per risolverlo.
Corriere della Sera 17.11.07
Con i poveri della terra rinasce il comunismo
di Stéphane Courtois
I no global scoprono le ideologie «prima di Marx»
Caduto il leninismo, l'estrema sinistra adotta forme primordiali: tutto il male sta nel denaro e nel profitto
Il crollo, tra il 1989 e il 1991, del sistema comunista mondiale dominato dall'Urss ha consentito il riaffiorare di correnti comuniste soppiantate, dopo il 1917, da un'unica visione leninista. È dunque fiorito un "neocomunismo", una nuova forma di pensiero e di azione per avvicinarsi alla realtà "mondializzata". I fautori dell'anticapitalismo hanno dovuto imprimere una variazione al loro linguaggio, optando in qualche caso per l'"antiglobalismo" o "altermondialismo". Si è verificato uno slittamento delle aspirazioni comuniste verso la nebulosa "alter".
Composta da una moltitudine di gruppi — di cui l'organizzazione Attac è uno dei più rappresentativi —, e coltivando una visione pessimistica dell'evoluzione economica ed ecologica del mondo, tale nebulosa designa un nemico comune, il "neoliberalismo", e manifesta la volontà di staccarsi dai partiti tradizionali con un comportamento militante innovativo. Per estendere la propria sfera d'azione — dai sans papier ai senza terra, passando per i disoccupati, gli omosessuali, le donne, eccetera — i neocomunisti hanno deciso nel 2000 di indire regolarmente un forum sociale mondiale dichiaratamente anti-Davos. Il primo è stato ospitato nel 2001 a Porto Alegre, in Brasile.
La morte del comunismo industriale e l'indebolimento della sua dottrina — marxismo e poi marxismo-leninismo — hanno favorito questo slittamento, alimentato dalle pratiche del capitalismo finanziario anni '90. Occorre, inoltre, tenere conto dell'ideologia dominante dell'altermondialismo, che coincide con le forme primordiali del comunismo — quella premarxista e prebolscevica — ossia la designazione del profitto, o addirittura del denaro, come fonte di ingiustizie e dei mali della società. Tale ritorno alle origini ha favorito una rilettura del corpus marxista-leninista, il riposizionamento della logica rivoluzionaria sugli esclusi o i discriminati — i "senza" — e una designazione del "nemico" che ha le sembianze del ricco, incarnato da organizzazioni e multinazionali occidentali. Il povero si vede concedere le prerogative virtuose del proletario, al contempo forza distruttrice e araldo di una buona società. L'idea di una necessaria redistribuzione egualitaria delle ricchezze mondiali tra Nord e Sud ha riavvicinato — con l'eccezione di qualche fautore dell'ortodossia leninista — istanze a prima vista inconciliabili — marxiste, neomarxiste, libertarie e anche cristiane — disperse sotto i molteplici stendardi del multiculturalismo, della decrescita, del terzomondismo, trotzkismo, neozapatismo nonché di alcune frange dell'islamismo radicale.
Quanti vengono identificati come marxisti ancora leninisti, in particolare, si riuniscono attorno alla Lega comunista rivoluzionaria, ai Rinnovatori del Partito comunista francese, al Partito dei lavoratori brasiliani, al Socialist Workers' Party in Gran Bretagna o a Rifondazione comunista in Italia. Essi ripongono le proprie speranze nei movimenti sociali, a livello nazionale e mondiale, percepiti come espressione di una medesima sofferenza, e dunque come attore collettivo radicale. Se è vero che hanno esteso la propria sfera d'azione ai poveri e agli esclusi, nondimeno essi salvaguardano le tesi escatologiche di una rivoluzione redentrice che deve necessariamente passare per la presa di potere. La loro adesione al movimento "alter" mira anzitutto a trasformare quest'ultimo in internazionalismo, o addirittura in una Quinta Internazionale che possa radunare sotto l'epiteto di "lavoratori" tutti i "diseredati".
I neomarxisti reinterpretano il corpus marxista alla luce di Michel Foucault, Gilles Deleuze, Rosa Luxemburg, Walter Benjamin o Pierre-Joseph Proudhon. Per federare i gruppi, ieri nemici, senza rompere con il retaggio comunista, essi privilegiano nella famiglia marxista i partigiani del materialismo storico che hanno rifiutato l'ideologia del progresso e il terrore. Ma l'unico innovatore sotto il profilo teorico è stato Antonio Negri, con la consacrazione della "moltitudine" — i "senza", gli esclusi, i disperati, gli errabondi — quale nuovo soggetto rivoluzionario, garante di una buona società.
Gli adepti della spartizione comprendono una frangia del neocomunismo più diversificata, perché collocata al crocevia di solidarismo, anarchismo e comunismo. È il caso del francese José Bové, ex portavoce della Confederazione contadina, che avvicina i neozapatisti messicani ai contadini del Larzac e al loro progetto di patrimonio collettivo. Non si parla, in questo caso, di riappropriazione diretta dei mezzi di produzione, ma di spartizione e di rinuncia a determinati privilegi per correggere lo squilibrio tra Nord e Sud e proteggere l'ambiente. Vicino alle posizioni di Bové, l'inglese John Holloway si ispira alla guerriglia neozapatista del subcomandante Marcos per rifiutare le rivoluzioni e le sperimentazioni del XX secolo, imperniate sulla conquista dello Stato, e per promuovere la dissoluzione di tutte le strutture di oppressione. Diversi esperimenti realizzati in America Latina fungono, infatti, da riferimento per l'invenzione di una società egualitaria ed emancipata; in particolare la «rivoluzione bolivariana» guidata da Hugo Chavez, presidente del Venezuela dal '98, che simboleggia per i neocomunisti il «socialismo del XXI secolo». Alcuni gruppi anarchici cavalcano l'onda "alter" per accelerare la decostruzione di un sistema odiato, sulla scia dei Black bloc o di alcuni «obiettori di crescita».
Il movimento "neo" comprende anche seguaci del cristianesimo, alfieri di una dottrina sociale che ha come priorità la pace e il riflusso della povertà. Se è vero che sono piuttosto inclini ad avvicinarsi alla linea solidarista favorevole alla cancellazione del debito dei Paesi poveri e alla tassazione delle rendite a vantaggio dei diseredati, alcuni di essi si identificano tuttavia con i poli di radicalità sulla questione della spartizione delle ricchezze del pianeta. I più attivi sono alcuni gruppi cristiani del Sudamerica, che si fanno portavoce di una teologia della liberazione, nuova utopia veicolata dalla figura cristica di chi nulla possiede.
Sebbene i riferimenti ideologici del neocomunismo appaiano estremamente eterogenei, essi convergono per fare della sofferenza e della rabbia del povero le leve di una redenzione della società, dinanzi a un mondo occidentale chiamato al pentimento e alla condivisione.
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Liberazione 17.11.07
Buona finanziaria. Montez furioso
Destra divisa. E ora si riapre tutto
I due poli non esistono più: Ipotesi sul futuro
di Rina Gagliardi
Giovedì sera, in Senato, alla quattordicesima ora (e al quindicesimo giorno) di permanenza nell'aula, abbiamo tutti tirato un grande sospiro di sollievo: la Finanziaria era passata, il centrodestra - e anzi Silvio Berlusconi - aveva perso, la maggioranza, nonostante tutto (e nonostante Lamberto Dini) aveva tenuto,come si usa dire. Non solo: era passato un provvedimento tutto sommato dignitoso e perfino con qualche punto innovativo. Certo, non è detto che si tratti della "migliore Finanziaria possibile" a questo mondo e non è detto che, alla fine del suo percorso parlamentare, essa non subisca qualche arretramento. Ma sarebbe sciocco sottovalutare quello che per ora c'è e che è stato ottenuto grazie alla indefessa battaglia politica della sinistra: sulla salute (l'abolizione dei ticket), sull'ambiente (Cip 6 e moratoria della privatizzazione dell'acqua) la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione), sui nuovi diritti (la Class Action), sulla lotta ai privilegi (il tetto sui salari dei manager di Stato). Alcune di queste conquiste valgono soprattutto come affermazione di un principio, o come avvio (magari imperfetto) di un nuovo istituto di difesa collettiva dallo strapotere (e dall'impunità) di banche e imprese - ma neanche questo è da considerare un risultato di poco conto. Basti, sulla Class Action, la reazione scomposta e rabbiosa di Confindustria (e dei parlamentari che stanno sul libro-paga dei poteri forti), per capire che si è davvero disturbato il manovratore, là dove (i soldi) il manovratore stesso manifesta per solito la sua massima sensibilità. Insomma, ci sono - ci sarebbero - alcune ragioni forti per rispondere positivamente alla domanda che Piero Sansonetti ha posto su queste colonne, poco tempo fa: che cosa ci sta a fare la sinistra al governo? Ci sta non solo per difendere quel (non molto) che resta del quadro democratico (dal berlusconismo, dal sicuritarismo, dall'emergenzialismo), ma per ottenere quel (non molto) di redistribuzione sociale e tutela dei diritti che però, altrimenti, si ridurrebbe a zero. Ci sta, insomma, per arginare l'egemonia dei valori della destra - quella eversiva e quella, ancor più pericolosa, confindustriale e vaticana - che avanza con forza non solo nella politica, ma nella società civile. Tuttavia, questa risposta, pur concretamente fondata, è a sua volta insoddisfacente. Non solo è parziale, ma è datata: appartiene ad un ciclo che, se non si è già concluso, è comunque alle nostre spalle. La verità è che si è già aperta una nuova fase politica, ancora più instabile di quella che l'ha preceduta: essa
pone a noi - alla sinistra - domande e compiti di tipo nuovo. Proviamo intanto a cercar di capire quel che è già successo e quel può succedere.
***
Primo: il governo Prodi, e la maggioranza che lo sostiene, hanno ottenuto un considerevole successo politico, ma, paradossalmente, questo successo non consolida il quadro attuale, già destabilizzato dalla nascita del Pd e dall'ascesa di un leader politico, Walter Veltroni, che svolge una funzione di fatto di "contropremier". L'annuncio di Lamberto Dini è chiarissimo: la piccola pattuglia moderata che sta per nascere al Senato è perfettamente in grado di far venir meno all'Unione la (faticatissima) maggioranza numerica di cui dispone. E sembra evidente che lo farà non appena avrà valutato che è arrivato il momento opportuno o l'occasione propizia - o prima della fine dell'anno, sul collegato Welfare, ove il provvedimento nel frattempo fosse stato seriamente migliorato (dal nostro punto di vista) o peggiorato (dal punto di vista di Dini stesso e di Confindustria), o subito dopo, a gennaio, magari sulla prima mozione di sfiducia che capita. In questa luce, si capisce perchè Dini, alla fine, pur dopo tanti annunci apocalittici, pur obtorto collo, la Finanziaria l'ha votata: perchè non aveva alcun interesse a far cadere Prodi in una fase in cui, ancora, era molto forte la spada di Damocle delle elezioni anticipate a primavera, l'obiettivo su cui il solo Berlusconi ha puntato tutte le sue carte. Mentre a tutt'oggi, Lambertow, come lo chiamano, gode di un altissimo potere di condizionamento (sembra incredibile, ma un uomo solo, o poco più, può contare più di un partito e di una coalizione: ecco in soldoni la crisi della politica), sul piano elettorale lo stesso Lambertow vale molto poco.Il suo interesse primario, perciò, come ha onestamente dichiarato giovedì sera in aula, è quello di "superare l'attuale quadro politico", non necessariamente favorire le sbruffonate del Cavaliere. Traduzione: concorrere alla nascita di un altro governo, fondato su altre formule politiche, e su altri equilibri, fondato cioè sull'esclusione della sinistra: Quel che chiedono, da mesi, poteri forti, "Corriere della sera" e così via.
Secondo: la coalizione di centrodestra si va scomponendo e, dopo due anni di opposizione inconcludente, matura al proprio interno la prospettiva di rientrare nel gioco politico. La lettera di Gianfranco Fini, pubblicata ieri sulla prima pagina del "Corriere" ha del clamoroso: una tale dissociazione da Berlusconi, il leader di An non l'aveva ancora compiuta, a nostra memoria. La Lega, a sua volta, scalpita. L'Udc, da molti mesi, persegue il proprio autonomo disegno neocentrista. In buona sostanza: Berlusconi appare isolato, perfino dai suoi alleati più fidi e tradizionali, la Cdl appare oggi come una ex-Casa. Se le cose stanno, all'incirca, così, c'è una novità di cui bisogna pur prendere atto: i due Poli, i due schieramenti che si sono fronteggiati il 9 aprile 2006, non esistono più . Non esistono più nella forma e negli equilibri interni che li hanno fin qui contraddistinti. L'instabilità politica, perciò, è destinata ad accrescersi. In tale instabilità, si riaffaccia con forza il disegno neocentrista da molti accarezzato. Ma riprende fiato, soprattutto, l'ipotesi di un governo di transizione con il compito di realizzare la riforma elettorale, e qualche altra "riforma" costituzionale, in termini tali da consentire il ritorno alle urne nel 2009. Naturalmente, non essendo nelle nostre prerogative l'arte divinatoria, non facciamo previsioni: gli scenari o le soluzioni possibili sono molte, e non tutte certo equivalenti. Non si può escludere, per esempio, che sia lo stesso Prodi a succedere a se stesso, se trovasse la forza di ricomporre il governo in modo innovativo e di rilanciare davvero lo spirito originario, e la metodologia, che ha retto l'alleanza di centrosinistra - anche se le difficoltà di un'operazione che non sia un semplice "rimpasto" sono evidenti e rinviano quasi tutte ai problemi strategici (e numerici) dell'Unione. Non si può non sapere che vi sarà il tentativo di varare un vero e proprio governo dei poteri forti, travestito da governo tecnico e gradito a Montez. Non si può, infine, sottovalutare il fatto che la formula più "gettonata" - quella di un governo istituzionale - non ha alcun precedente concreto, nella storia repubblicana, e non è per nulla chiaro, allo stato, la sua possibile articolazione. Comunque vadano le cose, questo è il refrain che dominerà la vicenda politica, da qui ai prossimi mesi. Dentro di essa, la sinistra ha già, e sempre di più non potrà che avere, una priorità: la capacità di far nascere davvero una nuova soggettività unitaria, e una proposta più forte e credibile di quella che ha finora guidato le sue diverse componenti. Tra i meriti della Finanziaria, last but not least, c'è stato quello di aver fatto crescere l'azione comune della sinistra alternativa, anche in termini visibili e "simbolici": giovedì sera, quando il verde Natale Ripamonti ha pronunciato la dichiarazione di voto a nome dei senatori di tutta la sinistra (Rifondazione comunista, Verdi-Pdci, Sinistra Democratica), ha corso sui banchi un piccolo brivido di commozione. Quel drappello di donne e di uomini, credetemi, ha lavorato - da tre mesi a questa parte - quasi fino allo sfinimento fisico, e no, non è stato "per niente". Purtroppo, se ne sono accorti anche gli altri, anche i nostri avversari - e non è l'ultima delle ragioni che determinano il paradosso del "puzzle Prodi". Ma su questo sarà bene tornare a riflettere.