domenica 6 settembre 2015

Corriere La Lettura 6.9.15
L’inflazione del sacrificio
di Emanuele Trevi


Bibliografia
Il tema del sacrificio è centrale nella riflessione del filosofo francese René Girard (Avignone, 1923), dal suo testo fondamentale La violenza e il sacro (traduzione di Ottavio Fatica ed Eva Czerkl, Adelphi, 1980) al più recente Il sacrificio (a cura di Pierpaolo Antonello, traduzione di Claudio Tarditi, Raffaello Cortina, 2004).
Questi argomenti ricorrono inoltre nelle opere di Roberto Calasso, a partire dal libro La rovina di Kasch (Adelphi, 1983). Da segnalare anche Sul sacrificio di Moshe Halbertal (traduzione di Rosanella Volponi, Giuntina, 2014)
Il film
Diretto da Mel Gibson e uscito nel 2006, il film Apocalypto narra la vicenda di un giovane maya prigioniero che riesce a sfuggire all’immolazione

Una delle prime fondamentali scoperte che si fanno sul linguaggio, ancora da bambini, consiste in una specie di gioco dal vago sapore surrealista. Prima o poi arriva per tutti il giorno della rivelazione: basta ripetere, ad alta voce o nel silenzio della mente, una parola, possibilmente a una velocità sempre maggiore, e questa parola si svuoterà del suo senso come una camera d’aria forata. Può essere un’esperienza divertente o angosciosa, a seconda dei temperamenti. Del resto, come si sa, non è mai detto che il divertimento e l’angoscia si escludano a vicenda. Quello che conta è che il risultato è sempre identico: basta un minuto e quella parola, fosse pure la parola più sacra ed inviolabile del lessico interiore del bambino («mamma» per esempio), si è trasformata in una scorza senza vita di vocali e consonanti. Proprio mentre si compie il lavoro dell’apprendimento linguistico, che contempla come sua tappa fondamentale le difficili nozze dello scritto e del parlato, il linguaggio confessa ai suoi utenti più imberbi una debolezza che non è un difetto accidentale e rimediabile, ma una componente intrinseca della sua natura.
Solo una piccola parte di quei bambini si iscriveranno a una facoltà umanistica o in qualche altro modo sentiranno parlare del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, che di quella debolezza intrinseca fornisce la spiegazione più plausibile. I legami tra i suoni delle parole e i loro significati, i loro fantasmi, le loro connotazioni affettive sono instabili perché sono convenzioni del tutto arbitrarie . Non c’è nulla nella natura delle cose che corrisponda alle parole che le designano. Se ci dimentichiamo il nome di tante cose, ciò si deve al fatto che non esiste nessuna ragione naturale che imponesse a quelle cose di avere quel nome.
Quello che accade nell’esperienza individuale, si riflette sempre, in modo certamente più complesso e più difficile da analizzare, nella storia collettiva, o se vogliamo nella cultura. Possediamo degli strumenti, come i dizionari, utili a rallentare quei processi di entropia che renderebbero inutile ogni linguaggio, rendendoci simili agli abitanti della Macondo di García Márquez, costretti da una specie di amnesia collettiva ad attaccare un cartello con il suo nome sopra ogni oggetto del villaggio. Eppure, la storia della cultura rimarrà sempre un edificio incompleto, e in fin dei conti inutile, se non riesce a contemplare sempre le due facce della medaglia: quella della pienezza dei significati originari delle parole, da un lato, e delle visioni del mondo che quelle parole veicolano; e quella, meno «nobile» forse, ma ugualmente illuminante, della perdita di senso di quelle stesse parole, dovuta alla loro inflazione. Non è mai nel culto dell’«originario» che noi, lontani da ogni origine concreta, comprendiamo chi siamo. Semmai, il nostro specchio più fedele è l’inarrestabile processo di degrado, l’ineluttabile sfociare nell’insignificanza di ciò che un tempo fungeva da pilastro del mondo.
Non esiste forse un esempio più significativo di questo poderoso fenomeno dell’uso contemporaneo del concetto di «sacrificio». La catena che unisce, anello dopo anello, l’originario e l’insignificante attraversa i secoli. Risalendo verso un passato sempre più tenebroso, il sacrificio è la ragion d’essere di intere civiltà, dall’India vedica alla Grecia arcaica e alle civiltà pre-colombiane. Procedendo in senso inverso, ci imbattiamo in un evento in tutti i sensi sconvolgente come la rivoluzione cristiana. Al culmine della modernità, tra Otto e Novecento, un posto a parte, di tutto rispetto, spetta all’opera degli antropologi, degli storici della religione, dei filosofi che hanno edificato un labirinto di «teorie del sacrificio» di sconcertante ricchezza e profondità.
Di fronte a questa grandiosa avventura spirituale, è naturale il desiderio di stendere un velo pietoso sul nostro presente. Nell’epoca in cui le principali forme di comunicazione e scambio intellettuale consistono nei comunicati stampa e nei pensierini dei social network, nemmeno i teologi cristiani e i più sottili filosofi sono riusciti a salvaguardare la vecchia fortezza. Il sacrificio è caduto nelle mani e nelle bocche noncuranti dei politici, degli esperti di diete, degli allenatori di calcio. La coincidenza della crisi finanziaria greca, dei sempre più allarmanti problemi di obesità nelle società benestanti e dell’inizio dei campionati riversa nelle nostre menti una quantità di «sacrifici» che nemmeno i più spietati sacerdoti aztechi avrebbero potuto immaginare.
La verità è che quando una parola smarrisce il suo significato diventa paradossalmente molto più spendibile, e si presta a sostituirsi ad altre magari più esatte, ma meno efficaci dal punto di vista retorico (la retorica, com’è noto, intesa come arte della persuasione, è il pane quotidiano dei politici, dei dietologi e degli allenatori di calcio). Per farla breve, dicono «sacrificio» e intendono «rinuncia», che è un concetto più mesto e meno eroico. In effetti, se rinunci a mangiare hamburger e patatine, peserai di meno; se rinunci ad andare tutta la settimana in discoteca, magari domenica segnerai un gol, o perlomeno correrai abbastanza da essere utile ai tuoi compagni. Non c’è bisogno di nessun sacrificio. Ed è un’autentica barbarie sostenere che i cittadini greci, ideali discendenti di quel re che immolò sua figlia Ifigenia per placare l’ira del mare e salpare per Troia, debbano fare sacrifici per l’euro, divinità molto più discutibile e meno affascinante di Poseidone.
Basta enumerare gli elementi essenziali del sacrificio nella sua forma più originaria per trarne l’impressione di un’esperienza psicologica e religiosa ormai fuori dalla nostra capacità di comprensione. Innanzitutto, la coppia fondamentale: colui che sacrifica, investito dalla comunità di questo delicatissimo compito, e la vittima immolata, umana o animale. L’atto si svolge in un tempo determinato e in un luogo particolare, che sono come isole nello spazio e nel tempo, separate dal corso ordinario della vita. Un rituale minuzioso riflette nelle azioni degli uomini le leggi del Cosmo immutabili come il corso dei suoi astri. Tutto ciò può destare un interesse di tipo archeologico o filologico, ma nessuna reale empatia. Semmai ci identifichiamo facilmente con tutto ciò che sfugge a questa scena insieme cerimoniosa e ripugnante.
Tra le elaborazioni artistiche di questa ribellione, avrebbe meritato una maggiore considerazione un film come Apocalypto di Mel Gibson (2006), stretto nella tenaglia della pedanteria storica e delle eterne sciocchezze del politically correct . Sarà imprecisa la descrizione degli ultimi anni dell’impero Maya, saranno anche rilevabili alcune incongruità nella sceneggiatura, ma la storia di Zampa di Giaguaro, prigioniero di guerra destinato all’immolazione al dio Kukulkán, è insieme una bellissima avventura e un’efficace allegoria. La fuga di Zampa di Giaguaro potrebbe essere interpretata come il primo racconto moderno , l’affermazione della vita individuale che evade dalla prigione dei cicli e dei riti, affermando se stessa nell’incertezza e nella contingenza. Il Cosmo diventa il Caso, e i custodi del sacrificio sono costretti al ruolo dell’inseguitore in un mondo che non possono più comprendere e dominare.
Quando si ragiona su questi argomenti, è sempre bene riprendere i mano i libri di René Girard, a partire da La violenza e il sacro , pubblicato nel 1972. Questa e le ulteriori ricerche del grande pensatore francese sul sacrificio e sul «capro espiatorio» sono state criticate, anche con molta virulenza, da vari punti di vista. Ma il nocciolo del ragionamento mi sembra molto convincente. Girard non esamina il sacrificio dal punto di vista di un’offerta alla divinità che genera dei vantaggi (l’esempio più classico: l’uccisione di un capo di bestiame propizierà la pioggia). Questa logica di scambio è certamente presente nell’economia del sacrificio, ma non ne costituisce la ragione ultima. Nelle società arcaiche, la necessità del sacrificio discende per Girard dal rapporto problematico dell’uomo con la violenza. Non si può eliminare la violenza, ma la si può indirizzare su una vittima che non chieda un risarcimento per il suo sangue versato, evitando una spirale di vendette che minerebbe la consistenza stessa della società.
Che cosa ci distingue dalle società e dalle culture del sacrificio? Un minore grado di violenza e bestialità? Basta leggere il giornale per scartare questa pia illusione. Noi siamo crudeli né più né meno dei nostri antenati, ma abbiamo un sistema diverso, che ha finito per prevalere sul sacrificio. Tra noi e la violenza si erge il baluardo, pieno di crepe ma tutto sommato più efficace, del diritto. Per un lungo periodo della storia antica greco-romana, osserviamo la convivenza delle leggi e dei sacrifici. E già questi ultimi, resi obsoleti dal nuovo sistema, scivolavano giorno dopo giorno nella sfera della superstizione e dell’insignificanza. Già Lucrezio può scagliarsi contro il sacrificio di Ifigenia con tutta la forza del suo genio poetico. Ma a sostenerlo non è solo la saggezza di Epicuro, come sembrerebbe a prima vista. Cittadino romano, e dunque uomo «giuridico» per eccellenza, Lucrezio riesce a percepire solo l’assoluta inutilità, il ridicolo intrinseco del gesto sacrificale.
Non c’è mai, d’altra parte, una partita che si chiuda davvero per sempre nello spirito umano. Disseminato come un inquietante pulviscolo, il sacrificio continua a sollecitare l’immaginario provocandolo dietro un’infinità di maschere. Anche questa è una verità come quella degli storici, e per farne esperienza diretta non c’è nulla di meglio che passare dalle razionalissime impalcature del pensiero di Girard alla sinuosa ricchezza erudita, agli scarti analogici, alle formulazioni memorabili dei libri di Roberto Calasso, a partire dalla Rovina di Kasch (1983), prima tappa di un’opera-mondo che ruota intorno all’asse del sacrificio attirando nella sua orbita sempre nuovi materiali, dai miti greci ai misteriosi disegni di Tiepolo, dagli aforismi di Kafka alle prescrizioni dei rituali vedici.
Tra le tante altre cose che si possono ricavare da questi libri, sembra emergere un ammonimento inquietante. «La storia», riflette Calasso, «si compendia anche in questo: che per un lungo periodo gli uomini uccisero altri esseri dedicandoli a un invisibile, e da un certo punto in poi uccisero senza dedicare il gesto a nessuno. Dimenticarono? ritennero inutile quel gesto di omaggio? lo condannarono come ripugnante? Tutte queste ragioni in qualche modo agirono. Poi rimase la pura uccisione». Nella loro assenza di consapevolezza, la guerra moderna intesa come distruzione di massa, l’immane mattatoio tecnologico dell’industria alimentare, lo sconquasso senza fine dell’equilibrio ecologico non saranno sacrifici ciechi, privi di limiti, potenti e minacciosi come sempre sono gli spettri dimentichi di ciò che sono stati?
Una delle prime fondamentali scoperte che si fanno sul linguaggio, ancora da bambini, consiste in una specie di gioco dal vago sapore surrealista. Prima o poi arriva per tutti il giorno della rivelazione: basta ripetere, ad alta voce o nel silenzio della mente, una parola, possibilmente a una velocità sempre maggiore, e questa parola si svuoterà del suo senso come una camera d’aria forata. Può essere un’esperienza divertente o angosciosa, a seconda dei temperamenti. Del resto, come si sa, non è mai detto che il divertimento e l’angoscia si escludano a vicenda. Quello che conta è che il risultato è sempre identico: basta un minuto e quella parola, fosse pure la parola più sacra ed inviolabile del lessico interiore del bambino («mamma» per esempio), si è trasformata in una scorza senza vita di vocali e consonanti. Proprio mentre si compie il lavoro dell’apprendimento linguistico, che contempla come sua tappa fondamentale le difficili nozze dello scritto e del parlato, il linguaggio confessa ai suoi utenti più imberbi una debolezza che non è un difetto accidentale e rimediabile, ma una componente intrinseca della sua natura.
Solo una piccola parte di quei bambini si iscriveranno a una facoltà umanistica o in qualche altro modo sentiranno parlare del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, che di quella debolezza intrinseca fornisce la spiegazione più plausibile. I legami tra i suoni delle parole e i loro significati, i loro fantasmi, le loro connotazioni affettive sono instabili perché sono convenzioni del tutto arbitrarie . Non c’è nulla nella natura delle cose che corrisponda alle parole che le designano. Se ci dimentichiamo il nome di tante cose, ciò si deve al fatto che non esiste nessuna ragione naturale che imponesse a quelle cose di avere quel nome.
Quello che accade nell’esperienza individuale, si riflette sempre, in modo certamente più complesso e più difficile da analizzare, nella storia collettiva, o se vogliamo nella cultura. Possediamo degli strumenti, come i dizionari, utili a rallentare quei processi di entropia che renderebbero inutile ogni linguaggio, rendendoci simili agli abitanti della Macondo di García Márquez, costretti da una specie di amnesia collettiva ad attaccare un cartello con il suo nome sopra ogni oggetto del villaggio. Eppure, la storia della cultura rimarrà sempre un edificio incompleto, e in fin dei conti inutile, se non riesce a contemplare sempre le due facce della medaglia: quella della pienezza dei significati originari delle parole, da un lato, e delle visioni del mondo che quelle parole veicolano; e quella, meno «nobile» forse, ma ugualmente illuminante, della perdita di senso di quelle stesse parole, dovuta alla loro inflazione. Non è mai nel culto dell’«originario» che noi, lontani da ogni origine concreta, comprendiamo chi siamo. Semmai, il nostro specchio più fedele è l’inarrestabile processo di degrado, l’ineluttabile sfociare nell’insignificanza di ciò che un tempo fungeva da pilastro del mondo.
Non esiste forse un esempio più significativo di questo poderoso fenomeno dell’uso contemporaneo del concetto di «sacrificio». La catena che unisce, anello dopo anello, l’originario e l’insignificante attraversa i secoli. Risalendo verso un passato sempre più tenebroso, il sacrificio è la ragion d’essere di intere civiltà, dall’India vedica alla Grecia arcaica e alle civiltà pre-colombiane. Procedendo in senso inverso, ci imbattiamo in un evento in tutti i sensi sconvolgente come la rivoluzione cristiana. Al culmine della modernità, tra Otto e Novecento, un posto a parte, di tutto rispetto, spetta all’opera degli antropologi, degli storici della religione, dei filosofi che hanno edificato un labirinto di «teorie del sacrificio» di sconcertante ricchezza e profondità.
Di fronte a questa grandiosa avventura spirituale, è naturale il desiderio di stendere un velo pietoso sul nostro presente. Nell’epoca in cui le principali forme di comunicazione e scambio intellettuale consistono nei comunicati stampa e nei pensierini dei social network, nemmeno i teologi cristiani e i più sottili filosofi sono riusciti a salvaguardare la vecchia fortezza. Il sacrificio è caduto nelle mani e nelle bocche noncuranti dei politici, degli esperti di diete, degli allenatori di calcio. La coincidenza della crisi finanziaria greca, dei sempre più allarmanti problemi di obesità nelle società benestanti e dell’inizio dei campionati riversa nelle nostre menti una quantità di «sacrifici» che nemmeno i più spietati sacerdoti aztechi avrebbero potuto immaginare.
La verità è che quando una parola smarrisce il suo significato diventa paradossalmente molto più spendibile, e si presta a sostituirsi ad altre magari più esatte, ma meno efficaci dal punto di vista retorico (la retorica, com’è noto, intesa come arte della persuasione, è il pane quotidiano dei politici, dei dietologi e degli allenatori di calcio). Per farla breve, dicono «sacrificio» e intendono «rinuncia», che è un concetto più mesto e meno eroico. In effetti, se rinunci a mangiare hamburger e patatine, peserai di meno; se rinunci ad andare tutta la settimana in discoteca, magari domenica segnerai un gol, o perlomeno correrai abbastanza da essere utile ai tuoi compagni. Non c’è bisogno di nessun sacrificio. Ed è un’autentica barbarie sostenere che i cittadini greci, ideali discendenti di quel re che immolò sua figlia Ifigenia per placare l’ira del mare e salpare per Troia, debbano fare sacrifici per l’euro, divinità molto più discutibile e meno affascinante di Poseidone.
Basta enumerare gli elementi essenziali del sacrificio nella sua forma più originaria per trarne l’impressione di un’esperienza psicologica e religiosa ormai fuori dalla nostra capacità di comprensione. Innanzitutto, la coppia fondamentale: colui che sacrifica, investito dalla comunità di questo delicatissimo compito, e la vittima immolata, umana o animale. L’atto si svolge in un tempo determinato e in un luogo particolare, che sono come isole nello spazio e nel tempo, separate dal corso ordinario della vita. Un rituale minuzioso riflette nelle azioni degli uomini le leggi del Cosmo immutabili come il corso dei suoi astri. Tutto ciò può destare un interesse di tipo archeologico o filologico, ma nessuna reale empatia. Semmai ci identifichiamo facilmente con tutto ciò che sfugge a questa scena insieme cerimoniosa e ripugnante.
Tra le elaborazioni artistiche di questa ribellione, avrebbe meritato una maggiore considerazione un film come Apocalypto di Mel Gibson (2006), stretto nella tenaglia della pedanteria storica e delle eterne sciocchezze del politically correct . Sarà imprecisa la descrizione degli ultimi anni dell’impero Maya, saranno anche rilevabili alcune incongruità nella sceneggiatura, ma la storia di Zampa di Giaguaro, prigioniero di guerra destinato all’immolazione al dio Kukulkán, è insieme una bellissima avventura e un’efficace allegoria. La fuga di Zampa di Giaguaro potrebbe essere interpretata come il primo racconto moderno , l’affermazione della vita individuale che evade dalla prigione dei cicli e dei riti, affermando se stessa nell’incertezza e nella contingenza. Il Cosmo diventa il Caso, e i custodi del sacrificio sono costretti al ruolo dell’inseguitore in un mondo che non possono più comprendere e dominare.
Quando si ragiona su questi argomenti, è sempre bene riprendere i mano i libri di René Girard, a partire da La violenza e il sacro , pubblicato nel 1972. Questa e le ulteriori ricerche del grande pensatore francese sul sacrificio e sul «capro espiatorio» sono state criticate, anche con molta virulenza, da vari punti di vista. Ma il nocciolo del ragionamento mi sembra molto convincente. Girard non esamina il sacrificio dal punto di vista di un’offerta alla divinità che genera dei vantaggi (l’esempio più classico: l’uccisione di un capo di bestiame propizierà la pioggia). Questa logica di scambio è certamente presente nell’economia del sacrificio, ma non ne costituisce la ragione ultima. Nelle società arcaiche, la necessità del sacrificio discende per Girard dal rapporto problematico dell’uomo con la violenza. Non si può eliminare la violenza, ma la si può indirizzare su una vittima che non chieda un risarcimento per il suo sangue versato, evitando una spirale di vendette che minerebbe la consistenza stessa della società.
Che cosa ci distingue dalle società e dalle culture del sacrificio? Un minore grado di violenza e bestialità? Basta leggere il giornale per scartare questa pia illusione. Noi siamo crudeli né più né meno dei nostri antenati, ma abbiamo un sistema diverso, che ha finito per prevalere sul sacrificio. Tra noi e la violenza si erge il baluardo, pieno di crepe ma tutto sommato più efficace, del diritto. Per un lungo periodo della storia antica greco-romana, osserviamo la convivenza delle leggi e dei sacrifici. E già questi ultimi, resi obsoleti dal nuovo sistema, scivolavano giorno dopo giorno nella sfera della superstizione e dell’insignificanza. Già Lucrezio può scagliarsi contro il sacrificio di Ifigenia con tutta la forza del suo genio poetico. Ma a sostenerlo non è solo la saggezza di Epicuro, come sembrerebbe a prima vista. Cittadino romano, e dunque uomo «giuridico» per eccellenza, Lucrezio riesce a percepire solo l’assoluta inutilità, il ridicolo intrinseco del gesto sacrificale.
Non c’è mai, d’altra parte, una partita che si chiuda davvero per sempre nello spirito umano. Disseminato come un inquietante pulviscolo, il sacrificio continua a sollecitare l’immaginario provocandolo dietro un’infinità di maschere. Anche questa è una verità come quella degli storici, e per farne esperienza diretta non c’è nulla di meglio che passare dalle razionalissime impalcature del pensiero di Girard alla sinuosa ricchezza erudita, agli scarti analogici, alle formulazioni memorabili dei libri di Roberto Calasso, a partire dalla Rovina di Kasch (1983), prima tappa di un’opera-mondo che ruota intorno all’asse del sacrificio attirando nella sua orbita sempre nuovi materiali, dai miti greci ai misteriosi disegni di Tiepolo, dagli aforismi di Kafka alle prescrizioni dei rituali vedici.
Tra le tante altre cose che si possono ricavare da questi libri, sembra emergere un ammonimento inquietante. «La storia», riflette Calasso, «si compendia anche in questo: che per un lungo periodo gli uomini uccisero altri esseri dedicandoli a un invisibile, e da un certo punto in poi uccisero senza dedicare il gesto a nessuno. Dimenticarono? ritennero inutile quel gesto di omaggio? lo condannarono come ripugnante? Tutte queste ragioni in qualche modo agirono. Poi rimase la pura uccisione». Nella loro assenza di consapevolezza, la guerra moderna intesa come distruzione di massa, l’immane mattatoio tecnologico dell’industria alimentare, lo sconquasso senza fine dell’equilibrio ecologico non saranno sacrifici ciechi, privi di limiti, potenti e minacciosi come sempre sono gli spettri dimentichi di ciò che sono stati?