sabato 15 agosto 2015

IO DONNA, supplemento del Corriere della sera 7.8.15
Marco Bellocchio: «Questo film è una resa dei conti»
Con “Sangue del mio sangue”, una delle pellicole più attese della Mostra del cinema di Venezia, il regista affronta una tragedia bruciante del proprio passato. E lo fa chiamando a raccolta la sua famiglia. Guarda il video del backstage dell'intervista
di Paola Piacenza


È uno dei grandi misteri della Mostra. Sangue del mio sangue, l’ultimo film di Marco Bellocchio, che a Venezia passerà in Concorso, non si presta a chiacchiere. Il suo autore, fresco del riconoscimento che il festival di Locarno il 14 agosto attribuirà a lui e al suo film d’esordio, I pugni in tasca, che compie mezzo secolo, lo consegna al pubblico (esce praticamente in contemporanea, il 9 settembre) senza fronzoli.

Poche righe di sinossi, la conferma che temi e luoghi (Bobbio, la val Trebbia, il potere destabilizzante del desiderio) sono tutti lì. E la famiglia, sempre presente nei film dell’autore piacentino, ma forse ora persino in maniera più radicale. Perciò Io donna ha deciso di ritrarre in questo servizio insieme a Marco, per la prima volta, i figli Elena e Pier Giorgio e la compagna Francesca Calvelli, madre di Elena e montatrice di questo, come di tutti i suoi film dal 1994.

Sangue del mio sangue è ambientato in gran parte in una prigione. Che cosa l’attirava in quel luogo e come l’ha scoperto?
MARCO È stato 6 anni fa, durante il laboratorio di cinema che tengo d’estate a Bobbio. I film di evasione sono sempre stati tra i miei preferiti, raccontano il talento dell’essere umano per sfuggire alla propria prigione. Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson, mi aveva molto colpito quando uscì. Questo luogo, ricavato da un convento e che era rimasto chiuso per trent’anni, era in realtà una prigione all’acqua di rose, ospitava solo detenuti per piccole pene, ma aveva l’impianto scenografico di un carcere duro. Mi ha fatto venire in mente questioni di cui mi ero occupato per gran parte della vita, la monaca di Monza, il suo destino di murata viva. Ho cominciato con una piccola cosa realizzata con gli studenti: l’episodio della Monaca di Bobbio, ambientato nel ‘600, durante l’inquisizione. Da lì nacque l’idea di Sangue del mio sangue. Ma c’è voluto tempo.

Bobbio è un piccolo paese sulle colline emiliane, ma ormai è sulla mappa del cinema.
FRANCESCA Questo mi fa un po’ ridere, perché per me Bobbio è completamente slegato dal cinema. Quando è nata Elena, io ancora non avevo incontrato nessuno della famiglia di Marco. Gli ho chiesto di portarmici per far conoscere a Elena il luogo dove suo padre era cresciuto, le sue sorelle, gli amici. Da lì Marco poi si è inventato i corsi, i cortometraggi, il festival. E si è tessuta tutta la tela. Ma per me Bobbio è più un luogo privato che un luogo di cinema.

PIER GIORGIO Lì è custodita la storia della famiglia, ci sono le zie, le storie sul nonno avvocato. Ed è il luogo dove ci si vede in modo diverso da come si sta a Roma, dove tutte le generazioni – la nostra, ma ce n’è già un’altra, io ho due figlie – si incontrano. Noi non ci vediamo a Natale, ci vediamo d’estate a Bobbio. Non rilassati perché non lo siamo mai, ma con una quotidianità.

Tornare lì a 50 anni dai Pugni in tasca che ricordi ha riportato in superficie?
MARCO «Anche Bobbio cambia, lentamente, ma cambia»: è una battuta del film. Bobbio esiste non in rapporto alla nostalgia della giovinezza, io non me lo posso permettere. In questi vent’anni che corrispondono all’età di mia figlia Elena non ci sono tornato per ripercorrere i sentieri del passato.

Non è il natio borgo selvaggio?
MARCO No, potrei lasciare Bobbio anche domani. Ci sono tornato perché avevo qualcosa da fare. Questo film è una resa dei conti. Uno dei suoi temi, forse il più profondo, è la “gemellità”, viene da una tragedia vissuta molti anni fa, quella del mio fratello gemello suicida. L’avevo già raccontata in Gli occhi, la bocca senza essere però soddisfatto del risultato. Qui in modo mediato, indiretto, la stessa tragedia – il fratello morto per amore – suscita la vendetta del sopravvissuto. Ma anche lui verrà sedotto da quella stessa donna. È un film bislacco, ma libero, dove presente e passato si ricongiungono. Non è un film americano, in cui tutto viene spiegato.

Come affrontare, da figli, una questione tanto delicata?
PIER GIORGIO Io ero molto piccolo, non ho ricordi di mio zio. Quello che io e Elena sappiamo di quella vicenda non ce l’ha detto Marco. Ce l’hanno detto le zie, o ce l’ha detto Francesca perché glielo hanno raccontato le zie. Per Marco è più semplice affrontarlo nel film che fermarsi a parlarne coi suoi figli. Fa parte delle grandi tragedie bellocchiane.

ELENA (il verso leopardiano Naufragar m’è dolce in questo mare tatuato sul braccio) In Sangue del mio sangue io sono io. Quando mio padre coinvolge me e mio fratello in un film crea dei personaggi che ci rispecchiano, vuole che siamo naturali, spontanei. Non vuole che ci allontaniamo da noi.

MARCO I miei figli hanno due pulsioni molto diverse verso la recitazione. A Elena importa poco, e quindi ha una sua leggerezza, è spontanea. Pier Giorgio è sempre più orientato a fare l’attore ed è molto motivato. Ha ormai abbandonato il ruolo di produttore forse perché il produttore in fondo è un protettore, un padre, non è uno che stacca solo gli assegni. Io ormai sono abbastanza anziano, ma continuo a fare questo discorso da ribelle. E se tu mi sei padre io mi devo opporre, mi dai fastidio, mi irriti.

La vostra famiglia è un luogo dove la ribellione è sempre presente.
PIER GIORGIO Siamo stati cresciuti così. Nelle buone famiglie della borghesia italiana se mandi al diavolo il padre o la madre vieni sgridato, da noi era: «Bene, allora hai una tua identità».

Troppi ribelli però non possono convivere.
PIER GIORGIO Il rapporto tra me e Marco si è sempre basato sul cinema. Mi ha buttato sul set a 6 anni da attore in Vacanze in Val trebbia. Poi ci sono le foto di me a 7 anni con le mollette da attrezzista. A 15 ho cominciato a fare il volontario. E non mi sono più fermato. E in questo lungo percorso in cui ho anche recitato ci sono stati momenti, dato l’estremismo del mio carattere, in cui al lavoro si è sovrapposto anche il conflitto che può esserci tra un padre e un figlio. E quello tra un produttore e un regista. Recitare è sempre stato dentro di me, anche se per un periodo mi sono negato questa possibilità, e poi insieme a lui me lo sono riconcesso. Il momento chiave è stato durante la preparazione del film La balia. Marco mi propose un ruolo. E mi fece tre provini…

Niente favoritismi…
PIER GIORGIO Nessuno. Me ne ha fatti due anche per il film successivo. Ha smesso solo di recente… Ricominciare a recitare ha coinciso con il ridisegnare il rapporto tra me e Marco. Che è sempre stato un rapporto molto intenso, molto conflittuale ma che ha consumato il suo conflitto nel cinema e che nel cinema ha trovato la sua pace. Rimaniamo caratteri e temperamenti fortissimi, la scintilla è sempre nell’aria, ma è propositiva, non distruttiva. Io e Marco anche nei momenti di maggior discussione, di scontro, sul cinema ci trovavamo d’accordo.

Avete lo stesso sguardo?
PIER GIORGIO Forse io ho il suo ed è abbastanza naturale.

Non le è mai venuto il pensiero: «Come mai non ha scelto me per quel ruolo?».
PIER GIORGIO (ride) Certo, per tutti i film che ha fatto e di cui io non sono il protagonista… Il pensiero viene ma poi se ne va. Forse per un unico film, e non dirò quale, a distanza di anni, mi sono ritrovato a pensarci. Dovevo farlo io. Lui quasi mi ha dato ragione. Quasi.

Al tempo del Principe di Homburg Marco diceva che avrebbe potuto essere un ribelle tutta la vita, ma che aveva anche capito che non doveva per forza sputare in faccia ai professori.
MARCO La ribellione si rinnova, la rabbia non mi dà più soddisfazione immediata. Mi chiedo subito: e poi? E la domanda successiva che mi faccio è: sei diventato un conservatore, un reazionario? Per esempio questa tragedia della Grecia…

Non starà con Schäuble.
MARCO No, ma sono in bilico. Si parla di solidarietà: bene, giusto. Ma io credo poco a una solidarietà nel nome della cultura e della storia del popolo greco. Diciamo invece che in Europa, nel nome di un interesse comune, conviene a tutti che si faccia così. È più franco, ed è una posizione politica. Di ideali ormai ne sono rimasti pochi.

Elena, davvero le importa poco del cinema?
ELENA È un mondo che mi affascina, ci sono nata, ma mi ha anche sempre fatto un po’ di paura. Mi diverte quando mio padre mi coinvolge, lo fa da quando sono molto piccola, sono stata buttata nel fiume con l’acqua gelata da bambina per girare una scena. Esserci nei suoi film mi è sempre sembrato molto naturale, ma mi è venuto spontaneo andare per la mia strada. Studio architettura in Svizzera. Ho fatto un anno a Roma, poi ho cambiato, mi sono trasferita in una accademia, si lavora meglio. E molto impegnativo, ma l’ho scelto io. Non escludo niente per il futuro, però sto facendo il mio percorso. Potrei anche coniugare le due cose, lavorare come scenografa per esempio.

FRANCESCA Elena si è resa conto di chi era il padre quando al liceo dei compagni glielo hanno sottolineato, ma lei viveva tutto in modo molto normale, anche andare ai festival faceva parte della normalità.

Essere una famiglia di cinema che cosa cambia nel modo di lavorare?
FRANCESCA (ride) C’è sempre il patriarca, ma le questioni si stemperano, si alleggeriscono. E Marco si nutre anche di questo. È un rapporto sano con una quotidianità che fa bene, con un mondo che è concreto, la scuola, la spesa. Non sei da solo a pensare sempre al cinema, c’è anche altro che ti gira intorno.

Marco, dei rapporti uomo-donna, spesso dirompenti nei suoi film, come Diavolo in corpo o La visione del Sabba, e dell’ambiguità dell’innamoramento aveva parlato molto nei film scritti in collaborazione con lo psicanalista Massimo Fagioli.
MARCO Quella collaborazione non c’è più da anni, anzi c’è stata una netta separazione perché non partecipo più all’analisi collettiva. Il mio rapporto con quell’esperienza, non è rinnegato, ma è cambiato. Ho sentito progressivamente la necessità di essere più libero.

Separarsi fa parte del percorso.
MARCO Non volevo più domandarmi se quello che facevo fosse giusto o sbagliato. Mi dovevo riconoscere la possibilità di sbagliare, di non essere sempre di fronte al conflitto morale che nasceva dall’analisi collettiva. Preferivo sbagliare ma essere libero. Sentivo che per fare questo film la libertà era una premessa obbligatoria.

Francesca, poi compito del montatore è trovare il principio ordinatore.
FRANCESCA (ride) Non è molto facile con Marco. Ho messo ordine nella liberta. Sangue del mio sangue è un film istintivo, molto personale, sono le cose della sua vita, la somma delle sue emozioni, del passato, del presente.

Marco, in questo film che parla di clausura di donne murate vive, è tornata a galla anche l’educazione religiosa che fa parte del suo passato, gli studi dai Barnabiti?
MARCO Quella era una prigione blanda. Dove io scelsi di andare perché la prigione della mia famiglia era talmente spaventosa che preferii il collegio. Era un collegio signorile, per buone famiglie, non era Dickens e nemmeno Giamburrasca. Il primo anno lo passai in camerata. Al secondo divisi la stanzetta con mio fratello Alberto (anche lui presente nel film, interpreta Pier Giorgio da vecchio, ndr). Ricordo che se volevi andare in bagno dovevi suonare, ti chiudevano dentro. Ma questo l’ho raccontato Nel nome del Padre. Scegliere volontariamente di andare in prigione e allo stesso tesmpo volerne uscire sono costanti della mia vita.

Le foto della famiglia Bellocchio sono di Fabio Lovino per Io donna. Abiti Giorgio Armani. Trucco Marianna  per Minette, capelli Marco Pietrantoni per Minette.

mercoledì 12 agosto 2015

Europa 12.8.15
L’Italia è il Paese con la più alta probabilità di uscire dall’euro
di Matt O’ Brien

Come lo chiami un Paese che è cresciuto del 4,6% – in totale – dal momento in cui è passato all’euro, 16 anni fa? Beh, forse quello con più probabilità di abbandonare la moneta unica. O, in breve, Italia.
È difficile dire cosa sia andato storto con l’Italia, perché niente è mai andato per il verso giusto. È cresciuta del 4% durante circa il primo anno nell’euro, ma quasi per niente nei 15 anni successivi. Ora, non vuol dire che la crescita sia rimasta invariata per tutto il tempo. Non è così. L’Italia è cresciuta del 14% da quando ha adottato l’euro, prima che la crisi del 2008 e la doppia recessione del 2011 cancellassero gran parte di quel progresso. Ma a differenza della Grecia, ad esempio, non c’è mai stato un vero e proprio boom. C’è stata solo una frenata. Il risultato, però, è stato lo stesso. La Grecia e l’Italia sono entrambe cresciute di un misero 4,6% negli scorsi 16 anni, nonostante abbiano seguito strade drasticamente diverse per arrivare a questo risultato.
Una parte del problema sta nel fatto che l’Italia, come indicato dal FMI (Fondo Monetario Internazionale), ha seri problemi strutturali. È  difficile aprire un’attività, difficile ampliarla, e difficile licenziare, il che rende i datori di lavoro diffidenti nell’assumere a priori. Tutto ciò ha portato ad una distopia di piccole imprese, in cui nessuno può raggiungere il tipo di economia di scala che lo renderebbe più produttivo. Ma, allo stesso tempo, l’Italia ha sempre avuto problemi simili, anche prima che arrivasse l’euro, e allora riusciva comunque a crescere. Quindi, parte del problema è l’euro stesso. È troppo caro per gli esportatori italiani e troppo restrittivo per il governo, che ha dovuto tagliare il proprio budget ancor più di quanto avrebbe dovuto.
Non che questo renda l’Italia unica – l’euro ha colpito anche i Paesi meglio amministrati – ma di sicuro i populisti italiani se ne sono resi conto. Perché? Beh, prima di tutto, la moneta unica ha portato all’Europa un serio caso di dissonanza cognitiva. La gente detesta l’austerità, ma ama l’euro anche di più – ha un attaccamento emotivo a tutto ciò che esso rappresenta. Il problema, però, è che è proprio l’euro il motivo per cui devono tagliare così tanto i propri budget (almeno finché la Banca Centrale Europea continuerà a costringere le banche a chiudere se non lo fanno). Così, i partiti contrari all’austerità hanno ritenuto di dover promettere l’impossibile se davvero vogliono ottenere un po’ di potere: mettere fine ai tagli, senza uscire dall’euro. Ma, come ha avuto modo di scoprire il partito Syriza in Grecia, questa strategia, se così la si vuol chiamare, non fa altro che fornire aspettative irrealistiche al proprio popolo, e  nessun buon motivo all’Europa per aiutarlo. Gli altri Paesi, dopotutto, non vogliono premiare quello che, dal loro punto di vista, è un pessimo comportamento di bilancio, se non un vero e proprio ricatto. E così alla Grecia è stato dato un ultimatum: lasciare l’euro o applicare ancora più austerità di quanto avrebbe dovuto fare originariamente. E ha scelto l’austerità.
La lezione è stata chiara. Non eleggere partiti contrari all’austerità, o le cose si faranno ancora più complicate. Ma, almeno in Italia, partiti del genere hanno imparato la lezione opposta: non escludere a priori l’ipotesi di lasciare l’euro, o le cose non miglioreranno mai. Beppe Grillo, il comico fattosi politico a capo del secondo partito più popolare, il Movimento Cinque Stelle, è passato dall’essere un euro-scettico accennato ad uno dichiarato. Ha scritto che il “rifiuto di uscire dall’euro” del Premier greco Alexis Tsispras “è stata la sua condanna a morte,” e che l’Italia dovrebbe usare il proprio debito “come un vantaggio per mettersi in offensiva in qualsiasi negoziazione futura.” Si tratta del vecchio detto: se devi alla banca 100 euro è un tuo problema, ma se gliene devi due biliardi il problema è della banca.
Quanto a problemi, è uno bello grosso. Non sarebbe poi così grande, però, se l’Italia cominciasse di nuovo a crescere. Maggiori introiti si tradurrebbero in un debito pubblico più basso, e, di conseguenza, minor austerità. Ma è difficile immaginare come potrebbe succedere. Il governo italiano deve ancora ridurre il suo budget, e le aziende devono ancora tagliare i costi per rendersi più competitive; due cose che  mineranno la crescita nel breve termine. E, nel frattempo, il partito anti-austerità italiano è l’unico in Europa pronto ad evidenziare che l’imperatore non cresce. Le persone potrebbero capire che è vero.

[Articolo originale "Italy is the most likely country to leave the euro" di Matt O’ Brien]

martedì 11 agosto 2015

Italia Oggi 11.8.15
Il filosofo tedesco Martin Heidegger non ha certo gasato nessun ebreo in vita sua ma, coi suoi scritti, ne ha sicuramente creato le premesse
di Diego Gabutti


Nel suo studio su Heidegger e la cospirazione ebraica, Bompiani 2015, pp. 149, 13,00 euro, ebook 6,99 euro, il direttore del Martin-Heidegger-Institut, Peter Trawny, invita a non pensare che ogni forma d'antisemitismo — compresa quella «onto-storica» dell'autore d'Essere e tempo, padre dell'esistenzialismo moderno — conduca direttamente ad Auschwitz e ne condivida per intero la responsabilità con Hitler e i suoi indemoniati.
Giusta osservazione, se si aggiunge, però, che l'antisemitismo apocalittico dei forni, delle camere di tortura, dei campi di lavoro e della soluzione finale è stato reso possibile dalle forme più morbide e per così dire letterarie dell'antisemitismo. Sono stati i pregiudizi religiosi, le allucinazioni razziali e biologistiche, le vignette dei giornali, i libelli e i romanzi d'appendice, i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, La questione ebraica di Marx (un ebreo, o meglio «l'ebreo», tanto che «per Hitler l'ebreo è sempre anche il marxista», dice Trawny) e le Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline a rendere l'antisemitismo familiare agli europei del XX secolo, che hanno considerato ragionevole, e persino compassionevole, l'odio per gli ebrei, usurai e cospiratori.
Tra queste forme «innocue», letterarie e prenaziste, d'antisemitismo c'era anche la filosofia tedesca: Hegel, Nietzsche e, dopo la prima guerra mondiale, Martin Heidegger. Non erano boia, ma intellettuali e pensatori, così come il guardiano dei campi, l'SS, il fucilatore d'ostaggi non era un assassino seriale, benché accoppasse i nemici della patria e dello stato senza mai nemmeno prendere fiato, ma un operaio o uno studente di leva, un laureato, un bottegaio o un impiegato di banca, un padre di famiglia, un professore di liceo, un ingegnere, uno che scrive lettere d'amore alla morosa.
All'autore di Sentieri interrotti, come agli altri antisemiti della cattedra, fu risparmiato l'orrore d'accendere il gas dopo aver chiuso la porta del forno dietro l'ultimo bambino, ma una relazione tra il suo antisemitismo e Auschwitz c'è, benchè lui non l'abbia mai ammessa, neppure nei suoi quaderni segreti, i cosiddetti Quaderni neri, dove anzi il suo antisemitismo è ribadito, e benché Trwany la «problematizzi». Heidegger, con «razza», intendeva qualcosa di diverso da ciò che intendeva il nazionalsocialismo con la stessa parola, e il suo oscuro concetto di «macchinazione» (insieme trionfo della tecnica e luogo di tutte le macchinazioni contro il popolo, la vita, il sangue e la filosofia) metteva contemporaneamente sotto accusa americanismo, ebraismo e lo stesso hitlerismo.
Ma dubito che la problematicità della filosofia heideggeriana e le disarmonie dei suoi Quaderni neri consolino anche un solo «giudeo» (o un solo civilizzato, se è per questo) dei suoi lutti. Ci sono «questioni filosofiche» che non è la filosofia a risolvere ma la storia. Di queste evidenze Heidegger non parlò mai. Come dice lo stesso Trawny: non si pretendevano scuse, ma avrebbe potuto esserci «almeno il tentativo di lasciare che il pensiero fallisca di fronte a ciò che è accaduto, oppure, forse, un'espressione del coraggio di portare il lutto».
Storia terribile della stagione più tenebrosa della filosofia tedesca, Trawley si sforza di raccontar l'heidegerrismo senza ricorrere – almeno non più di quanto sia necessario – al gergo della filosofia heideggeriana, difficile e oscuro, a tratti inesplicabile: una lingua che ha sempre scoraggiato i divulgatori. Ci sono storie che non hanno una morale. «Con la pubblicazione dei Quaderni neri», scrive Trawny, «Heidegger s'è inserito nella dolorosa storia della Shoah», benché abbia fatto di tutto per evitarlo. «Il lutto che piange ciò che è andato perduto si scontra con l'orrore del pensiero al quale questo lutto è sconosciuto. Questa «scia di lacrime» continuerà a esistere finché ci sono uomini sulla terra»
Il Sole Domenica 9.8.15
Festival del film di Locarno

Cinquant’anni di rabbia
Alla kermesse svizzera, che ospitò la prima dei Pugni in tasca, Pardo d’onore a Bellocchio
Pur iconoclasta, il film non piacque a Buñuel
di Goffredo Fofi


Molto prima di Marco Bellocchio conobbi suo fratello Piergiorgio, che mi aveva invitato a scrivere di cinema sui Quaderni piacentini, e l’impatto con I pugni in tasca - che sarà proiettato in Piazza grande il 14 agosto nell’ambito del Festival del Film di Locarno, dove a 50 anni dalla prima locarnese - fu mitigato da quel che ne avevo sentito dire “in famiglia”. Eppure quando vidi il film a Venezia, fui sbalordito dalla sua forza, dal suo coraggio. Un grido di rivolta contro la famiglia, contro la piccola borghesia, contro la provincia e il provincialismo italici, addirittura – nel Paese più mammista del mondo – contro la mamma. Ma condividendo nello stesso tempo un sentimento di impotenza che un titolo perfetto esprimeva alla perfezione. Che si sapesse, il giovane regista non era in analisi, e il film non si preoccupava di spiegazioni tormentate e tormentose, psico-filosofiche (il limite di tanti suoi film, nell’ambizione di voler scavare e scavare, spiegare e spiegare il fondo degli umani comportamenti) e andava diritto alla scopo, lavorando su una sceneggiatura dove la tensione cresceva di azione in azione senza divagazioni e senza oratoria, dimostrando, dando per acquisito un giudizio che era più sociale che morale e che non si curava minimamente del comune senso della morale che allora era in auge. Insieme a Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, che era però un secondo film anche se il vero debutto “d’autore” del giovane parmense, dopo l’esercitazione calligrafica di La commare secca, figurò come una sorta di manifesto generazionale, di una generazione di “prima della rivoluzione” del ’68, che però la sua rivoluzione doveva fallirla per interna povertà e per esterna e massiccia prepotenza.
Oltre la loro importanza di “rilevatori storici”, riconosciuta anche dagli storici di professione, questi due film mantengono una loro estetica forza, pur nella loro differenza – più pacato e “borghese” il parmense, più furioso e “piccolo borghese” il piacentino. Bellocchio voleva provocare e ci riusciva, aggredendo il cuore dei nostri costumi, vedendo nella famiglia il perno d’ogni più generale compromissione, se non corruzione. Forse la crisi di questo nucleo sociale primario era già in atto, e il benessere aveva cominciato a dare qualche risultato. Anche se è probabile che Bellocchio fosse partito da considerazioni tutte sue più che da modelli chiari, però aveva studiato cinema a Londra e aveva certamente subito qualche influenza degli angry young men del teatro e d’altre arti.
In ogni caso, l’impatto del suo film e della sua visione/rifiuto della famiglia fu avvertito da tutti, anche da chi non era d’accordo con i suoi modi di affrontarla. Le critiche che suscitò da parte cattolica erano prevedibili, e certamente il film non entusiasmò la sinistra ufficiale (il Pci, gli “zavattiniani” buonisti di allora, padri e madri di quelli di poi), ma non furono queste a colpire di più. A suo modo Bellocchio voleva essere anche un regista “politico”, e il suo secondo film, una “commedia di costume” molto efficace, La Cina è vicina, sconcertò lo stesso Pietro Nenni e fece infuriare molti socialisti perché metteva in berlina l’ingresso del Psi nel governo, la nascita del centro-sinistra. La sola critica che mi sconcertò, e sulla quale pensai più tardi a ogni visione successiva del film, fu quella di Luis Buñuel, che per esempio i critici della rivista francese «Positif» su cui scrivevo, eredi in parte del gruppo surrealista – Breton era ancora ben vivo – prevedevano sarebbe stata positiva. Buñuel, invece, detestò il film. Non ho ritrovato la sua risposta al giornalista che la diffuse, ma ricordo che si dichiarò addirittura scandalizzato dal film e dalla sua morale. Residui cattolici anche in lui? O non piuttosto una visione diversa dell’uomo e della società – più complessa e più radicata quella di Buñuel di quanto non fosse quella del giovane Bellocchio che, come molti film futuri dimostrarono (con rare eccezioni, come Il principe di Homburg o Vincere).
Se per Buñuel mi capitò di parlare di “prigione cristiana”, anche in senso positivo, per Bellocchio si potrebbe parlare, alla luce della sua vasta e importante opera, di “prigione freudiana”, con la differenza che la “prigione cristiana” ha permesso a Buñuel libertà e ricchezza narrativa densa di riferimenti metafisici, diciamo pure etico-religiosi, assenti in Bellocchio, poco portato alla metafisica e all’antropologia, e ovviamente alla religione. A cinquant’anni di distanza, la furia iconoclasta di I pugni in tasca si è parecchio attutita e Bellocchio è da tempo un distinto regista di una certa età, pacificato da tempo col mondo in cui vive ma ancora inquieto e interrogante su cos’è l’uomo, e forse su cos’è egli stesso, cos’è ciascuno di noi. Un regista laico, serio, che insiste e scava sugli stessi tempi da sempre. Un regista adulto, ma in un’epoca assurda in cui avremmo forse gran bisogno di giovani nuovamente “arrabbiati”, più assai che di saggi perlustratori dell’umana intima imperfezione.